Umberto Galimberti – La casa di psiche

La casa di psiche

Nella casa di psiche ha preso dimora un ospite inquietante che chiede, con una radicalità finora sconosciuta, il senso dell’esistenza. Gli altri ospiti, che già abitavano la casa, obiettano che la domanda è vecchia quanto il mondo, perché, dal giorno in cui sono nati, gli uomini hanno conosciuto il dolore, la miseria, la malattia, il disgusto, l’infelicità e persino il “disagio della civiltà” a cui prima le pratiche religiose, poi quelle terapeutiche, con la psicoanalisi in prima fila, hanno tentato di porre rimedio. L’ospite inquietante però insiste nel dire che nell’età della tecnica la domanda di senso è radicalmente diversa, perché non è più provocata dal prevalere del dolore sulle gioie della vita, ma dal fatto che la tecnica rimuove ogni senso che non si risolva nella pura funzionalità ed efficienza dei suoi apparati. L’uomo soffre per l’“insensatezza” del suo lavoro, per il suo sentirsi “soltanto un mezzo” nell’“universo dei mezzi”, senza che all’orizzonte appaia una finalità prossima o una finalità ultima in grado di conferire senso. Sembra infatti che la tecnica non abbia altro scopo se non il proprio autopotenziamento. Di fronte a questa diagnosi, la psicoanalisi rivela tutta la sua impotenza, perché gli strumenti di cui dispone, se sono utilissimi per la comprensione delle dinamiche emotivo-relazionali, per i processi di simbolizzazione sono inefficaci. Qui occorre la pratica filosofica perché, fin dal suo sorgere, la filosofia si è applicata alla ricerca di senso. E mentre la psicoanalisi, nei suoi momenti più alti, si è limitata a curare le sofferenze dell’anima provocate dalle condizioni del mondo, ottenendo come risultato una presa di distanza individuale dal vuoto di senso, la filosofia non ha mai esitato a mettere in questione il mondo. Dall’insensatezza non si esce con una “cura”, perché il disagio non nasce dall’individuo, ma dal suo essere inserito in uno scenario, quello tecnico, di cui gli sfugge la comprensione.

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