Danilo Kiš – Una tomba per Boris Davidovič

Il volto di Boris Davidovič e quello butterato del suo carnefice, intento a estorcergli l’ennesima «falsa confessione», si fronteggiano nel buio di una cella densa di fumo: il primo cerca di conservare la dignità nella caduta e nella morte, l’altro di preservare «la severità e la coerenza della giustizia rivoluzionaria» in nome di interessi superiori.
Ma questo scontro, che finirà per prendere stabile dimora nella memoria del lettore, è solo il più raggelante fra gli accordi di una intensa partitura di sette variazioni su un unico tema, quello della sopraffazione e della persecuzione costitutive non solo del «socialismo reale», ma anche della Storia in generale – come mostra, nella Tolosa trecentesca, il massacro degli ebrei non battezzati da parte della folla cristiana. Tuttavia è soprattutto nelle città e nei paesaggi eurasiatici del Novecento che si collocano gli emblematici episodi che Kiš, basandosi su fonti tanto affidabili quanto misconosciute, ci racconta. Da un remoto distretto dell’Europa orientale, dove la brutalità di Mikša, apprendista artigiano, si esercita con la stessa apatia sugli animali e sulle presunte traditrici della causa rivoluzionaria, si passa ai fondali di una squallida Dublino, terra d’origine dell’i- dealista Gould Verschoyle, il cui corpo nudo e ghiacciato finirà esposto nel ’45 in un lager kazako «come ammonizione per coloro che sognavano l’impossibile». In questo iter dell’orrore, la guida più ferma è la scrittura di Kiš: il suo stile «estremamente denso, e dunque altamente allusivo», come ha detto Brodskij, rende l’arte, nella sua funzione di testimonianza, «ancora più devastante delle statistiche».

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