Nikolaj Aleksandrovic Ravic – La giovinezza del secolo

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I testi sulla rivoluzione russa e sugli avvenimenti immediatamente successivi ubbidiscono, grosso modo, a una suddivisione fondamentale: da una parte memorie, diari, reportages, autobiografie; dall’altra saggi, studi, opere vaste e minuziose basate e sulle testimonianze dei protagonisti e, in maniera determinante, sulle ricerche d’archivio come i lavori fondamentali del Chamberlain e, soprattutto, del Carr. Attraverso questo lavoro di rielaborazione dei dati e dei fatti, lo storico cerca una visione unitaria degli avvenimenti, anche se la soggettività dell’interpretazione, imprescindibile e d’altronde spesso fruttuosa, impedisce l’assoluta « obiettività ». Di solito l’interpretazione offerta dal testimone è assai più parziale di quella dello storico, e difficilmente può superare i limiti della concitata chiarezza di John Reed nei Dieci giorni che fecero tremare il mondo , o l’impeto romantico di Isaac Babel nell’Armata a cavallo, o l’orgoglio partigiano del generale Tjulenev in Proletari a cavallo . Ma se il racconto del testimone manca di metodo, non vi si perde, come troppo spesso accade negli studi condotti a posteriori, il senso di quella che Lenin chiamò la « gioia rivoluzionaria ». Nel libro di Nikolaj Ravic proprio questa « gioia » si comunica al lettore, e insieme tutta la vitalità, l’irruenza, la confusione, l’intrigo, l’avventura che la rivoluzione porta con sé. In questo racconto di viaggi, battaglie e incontri straordinari che si può senz’altro definire picaresco, fisionomie e vicende vengono restituite al lettore con sorprendente immediatezza, non solo per le doti dell’autore sempre acuto e vivace, ma anche per la sua capacità di ricatturare quei giorni come fossero ieri. Si tratta dunque di un volume eccezionale tra la valanga delle altre testimonianze spente dal tempo, o dalla censura ideologica, o da altro dove tutto si svolge in una penombra di ombre a fatica riconoscibili. Il protagonista, giovane borghese, ex studente di liceo, unitosi ai bolscevichi fin dai primi giorni di ottobre, percorre una rapida carriera nell’esercito adempiendo i servizi più disparati in diverse zone di operazione. Lo troviamo a Odessa giunto dal fronte ucraino al seguito dell’enigmatico atamano Grigor’ev, maestro del doppio gioco rivoluzionario, lo troviamo in Bielorussia e poi in Polonia, dove viene fatto prigioniero ma riesce fortunosamente a evadere e a riparare a Mosca. In questa città lavora con Dzerzinskij, il celebre conte polacco fondatore della Ceka, di cui traccia un ritratto indimenticabile. Ma di ogni personaggio incontrato, importante o no, l’autore ci offre una descrizione insolita, proprio perché è interessato al suo carattere o, se vogliamo, alla sua umanità. Alexandra Kollontai in una stanza d’albergo che prende il tè con Dybenko; Raskolnikov nervoso e agitato, nel suo treno, spesso assente a causa delle amnesie provocate da una ferita ricevuta a Kronstadt; Gemal Pascià sbalzato dalla sella del suo meraviglioso purosangue imbizzaritosi per una salva di cannoni esplosa in onore del suo padrone. Non solo i personaggi, ma anche la natura e la bellezza delle regioni, il meccanismo e la furia delle battaglie, gli intrighi diplomatici degli inglesi e dei capi musulmani dell’Asia Centrale, il profumo grasso dei cibi e le brevi, delicate storie d’amore nate nelle città invase, tutti gli aspetti della vita, insomma, immersi nella caldaia della rivoluzione, affiorano nitidi in questo racconto. E qui sta il pregio del libro; l’autore si è proposto un compito difficile ma ha saputo assolverlo pienamente, quello, cioè, di non tacere nulla e ricordare con intensità tutto sulla rivoluzione, glorie e miserie, perché come dice egli stesso con grande semplicità, « mi è sembrato importante che nessuno di noi tacesse quel che ricorda e quel che ha vissuto ».