«Secondo Solenicyn il campo di prigionia è l’inferno. Io invece penso che l’inferno siamo noi». Questi «appunti di un sorvegliante» giocano su due piani, come a mostrare, nella comparazione tra «mondo di dentro» e «mondo di fuori» il carattere inestricabilmente paradossale, intrinsecamente comico del mondo. Il piano autobiografico dei ricordi dalla prigionia per criminali comuni dove Dovlatov andò a fare la guardia militare dopo la sua espulsione dall’università; e il piano della invenzione, nelle lettere che finge di scrivere agli editori dell’esilio di New York, e in cui racconta delle traversie nel tentativo di farsi pubblicare i racconti di Regime speciale, della sua gioventù sovietica e della sua vita in esilio. Come un contrappunto, un controcanto, o forse meglio, come un’eco ripetuta tra vita di liberi e vita di prigionieri, allo schizzo, al personaggio, all’episodio del campo di prigionia, si alterna lo schizzo, il personaggio, l’episodio dalla vita quotidiana. Sicché Regime speciale non è un racconto di prigionia. Il soggetto è l’incanto, come nelle altre prove del grande umorista russo, divertito e triste, familiare e stupito di fronte all’umanità, umanità di dentro e umanità di fuori: come un assassino efferato possa essere un buon amico quale non si trova tra la gente perbene, e come dentro si possa ridere e gioire di cuore e annoiarsi e intristirsi fuori. Come sia labile il confine, come sia in realtà sottile la differenza. E non solo tra prigione e libertà, ma anche tra russi in URSS e russi in America. Perché, dice Dovlatov del fine del suo romanzo, «in generale vi viene professata una sola, banale idea: che il mondo è assurdo». E il risultato è un irresistibile umorismo, dove il lampo, ingenuo in apparenza e paradossale, caratteristico della scrittura di questo grande, la battuta fulminea nel più classico stile russo, la situazione esasperata e grottesca, la tolleranza divertita, il comico, fanno ridere, ma non altro che di noi e della nostra condizione. Col sospetto che sia Dovlatov a ridere di noi.
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Sergej Dovlatov – Compromesso
Un grande scrittore racconta come nasceva in una redazione russa una non-notizia: dodici cronache irresistibili dal regno globale della non-comunicazione.
Sergej Dovlatov – Il parco di Puskin
Anarchico, vagabondo, individualista, solidale con ogni eversione solitaria: le narrazioni di Dovlatov posseggono un’incantevole forza di immedesimazione per il lettore. Voce narrante e protagonista insieme di storie che hanno l’inconfondibile marchio del vissuto, la prosa rapida e classica di Dovlatov dà un «ordine lirico» – è stato detto – a un caos naturale. E trascina in viaggi, lungo il percorso di una trama, in un mondo popolato di umoristi naturali, che esprimono la totale insensatezza esistenziale, la definitiva casualità che stringe nel paradosso ogni genere di personalità: siano essi i confusi emigrati ex dissidenti (come nei romanzi ambientati nell’America dell’esilio) siano gli stralunati ubriaconi, mezzi intellettuali mezzi barboni, suoi amici nell’URSS anni Settanta, come in questo romanzo. Nel parco letterario Puškin, per sbarcare il lunario, è finito a fare da guida uno scrittore dissidente e fallito: dissidente dal mondo e fallito a ogni possibile impresa, il negativo esatto di quello che Puškin rappresenta per la mitologia dominante. Nei suoi giorni ciondolanti incontra persone di ogni tipo, ma ciascuna di incerta identità, arcipelago di io separati contraddittori e fragili: l’alcolista razzista, mite e generoso; il dotto che ha letto tutti i libri ma è paralizzato dall’abulia; il funzionario del KGB che si scopre saggio paternalista e dissidente; il capellone perturbatore dell’ordine che nella sbronza si rivela un erudito. Due sole convinzioni illuminano il protagonista-narratore: l’ostilità verso la santità, cioè l’idea che il bene sia facile, naturale e riconoscibile; l’avversione contro ogni attivismo. Finché a sconvolgere quella folle armonia, alcolica e dissipata, piomba la moglie che sta per lasciare l’URSS alla volta di Chicago, approfittando di uno spazio apertosi per l’emigrazione. E le peripezie di Parco di Puškin mostrano il loro senso vero: la riflessione drammatica, di un grande scrittore, sul rapporto con la propria patria, con la propria lingua, col potere.