Sándor Márai – Confessioni di un borghese

A trentaquattro anni, quando tanti muovono i primi passi nella vita letteraria, Márai pubblicò un libro di memorie di allarmante, definitiva maturità: Confessioni di un borghese. E lo fece in un momento (la metà degli anni Trenta) in cui, anche se pochi se ne rendevano conto, tutto ciò che era accaduto in precedenza assumeva una tinta di vecchia Europa, sebbene si presentasse a volte come la punta della modernità più sfrenata, con tutti i suoi eccessi – sessuali, intellettuali, politici. È il caso della Berlino dove Márai era vissuto pochi anni prima, e che gli era apparsa come un «unico, continuo ballo in maschera».
In questo che è anche uno scintillante romanzo di formazione seguiamo il narratore dall’infanzia nella cittadina di Kassa, sullo sfondo del tramonto di quella civiltà danubiana che la storia di lì a poco cancellerà, agli anni in cui, spinto da una vorace curiosità e irrequietezza, abbandona il suo paese per una destinazione a lui stesso ignota. Cominciano così le peregrinazioni nell’Europa fra le due guerre: da Lipsia a Weimar, da Francoforte alla Berlino degli anni Venti (in cui «tutti si davano alla pazza gioia, come avvertendo l’approssimarsi di una catastrofe»); quindi a Parigi, dove con la giovane moglie Lola condivide un’esistenza bohémienne, fra alberghi equivoci e miseri bistrot, templi della mondanità internazionale e caffè dell’emigrazione politica di Montparnasse. E ancora sarà a Firenze, a Londra, in Medio Oriente – sino al momento in cui, mettendo fine agli anni di apprendistato, deciderà di tornare in quella patria «ufficiale, poliziesca, imbandierata e fanatizzata» nella quale, nonostante tutto, per diventare uno scrittore bisognerà cercare «la vera patria, che è forse la lingua, o forse l’infanzia».

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