Guido Carpi – Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1934) [LDB]

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A cento anni dalla morte di Vladimir Il’ic Ul’janov, Lenin, il volume ne ricostruisce il pensiero e l’azione negli aspetti più fertili: la lotta intransigente contro ogni forma di sfruttamento e oppressione, la volontà di costringere la nazione un tempo dominante nell’ex Impero russo a farsi membro di una grande famiglia di popoli con uguali diritti, la fondazione di una Internazionale comunista capace di collegare le lotte sociali dell’Occidente ai movimenti di liberazione presenti nell’immensa periferia coloniale. Non priva di lacune e di gravi limiti, quali l’assenza di una vera e propria teoria dello Stato socialista o l’incapacità a contrastare quel nuovo apparato burocratico sovietico che avrebbe poi generato un’involuzione autoritaria, la visione strategica del “rivoluzionario assoluto” germina da una carica utopistica senza confini e produce l’onda d’urto politica più devastante del XX secolo.

 

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Tamas Krausz – Lenin. Una biografia intellettuale (1870-1924) [LDB]

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Lenin resta ancora oggi una delle figure politiche più discusse del Novecento. Genio politico che per la prima volta nella storia ha portato al potere masse di diseredati o dittatore che ha fondato un inedito sistema oppressivo? Agitatore e sovversivo abituato a carceri, confino ed esilio o statista internazionale che ha salvato il suo paese dalla catastrofe? Liberatore delle nazionalità oppresse e profeta della fine della guerra tra i popoli o iniziatore di una nuova guerra civile internazionale fra classi sociali? E ancora: filosofo profondo, lettore di Marx e Hegel, interprete della grande cultura borghese o dogmatico sprezzante convinto di possedere la verità? A cento anni dalla sua morte, lo scontro intorno alla figura di Lenin continua a imperversare. E non è un caso. Se da un lato il suo nome è ancora una maledizione per gli eredi di chi lo ha combattuto – dai governi europei agli Usa, dagli autori liberali alla sinistra «rinnegata», passando per il «neo-zar» Putin –, dall’altro la sua opera e il suo pensiero sono un riferimento costante per milioni di contadini, operai, attivisti politici o sociali che lottano per trasformare il mondo. In questo denso volume Tamás Krausz, uno dei più autorevoli storici ungheresi, offre una panoramica completa su Lenin, raccontandone la vita ed esaminando i nodi cruciali del suo pensiero: l’organizzazione del partito, la teoria dello Stato, la questione nazionale, la dinamica dei processi rivoluzionari. Ma allo stesso tempo Krausz ricostruisce le condizioni storiche concrete in cui Lenin agì, il dibattito storiografico intorno alla sua figura, i motivi per cui oggi i problemi da lui affrontati tornano d’attualità. Utilizzando materiali inediti e documenti desecretati degli archivi dell’ex Unione Sovietica, Krausz rende conto dei «molteplici Lenin» che la Storia ci ha consegnato e restituisce l’unità profonda del suo pensiero, mostrando come anche nel XXI secolo esso sia un riferimento per chi ancora crede nella possibilità di un mondo diverso, di un mondo più umano.

 

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Richard Sennett – L’uomo artigiano [LDB]

Saper fare bene le cose per il proprio piacere: una regola di vita semplice e rigorosa che ha consentito lo sviluppo di tecniche raffinatissime e la nascita della conoscenza scientifica moderna. Fabbri, orafi, liutai univano conoscenza materiale e abilità manuale: mente e mano funzionavano rinforzandosi, l’una insegnava all’altra e viceversa. Ma non è il solo lavoro manuale a giovarsi della sinergia tra teoria e pratica. Perché chi sa governare se stesso e dosare autonomia e rispetto delle regole, sostiene Sennett, non solo saprà costruire un meraviglioso violino, un orologio dal meccanismo perfetto o un ponte capace di sfidare i millenni, ma sarà anche un cittadino giusto. L’uomo artigiano racconta di ingegneri romani e orafi rinascimentali, di tipografi parigini del Settecento e fabbriche della Londra industriale, un percorso storico attraverso cui Sennett ricostruisce le linee di faglia che separano tecnica ed espressione, arte e artigianato, creazione e applicazione. Il miglior esempio di “saper fare” moderno? il gruppo che ha creato Linux, gli artigiani della moderna cattedrale informatica.

 

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Maurice Halbwachs – I quadri sociali della memoria [LDB]

I quadri sociali della memoria costituisce il testo fondativo dell’approccio sociologico alla memoria. L’opera interroga la nostra relazione con il tempo e con la storia: in dialogo con il filosofo Henri Bergson, Maurice Halbwachs propone la tesi radicale secondo la quale i processi del ricordo – abitualmente attribuiti a facoltà mentali strettamente individuali – sono in realtà socialmente determinati.
Il volume ha inaugurato quella linea di ricerca che avrebbe lavorato sulla nozione di memoria collettiva riconoscendola come centrale per la definizione delle condizioni di possibilità dei processi identitari dei gruppi sociali. Oggi torna in libreria in un’edizione rinnovata e arricchita di alcuni testi centrali per la sua comprensione – come le recensioni che lo storico Marc Bloch e lo psicologo Charles Blondel ne fecero subito dopo la sua prima edizione, nel 1925 – così da mettere a disposizione del pubblico italiano un classico sociologico di straordinaria attualità.

 

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Daniel Halévy – Degas parla [LDB]

Edgar Degas era schivo, taciturno, intransigente. E molto solo, perché solo, e isolato (soprattutto dagli artisti suoi contemporanei) voleva essere. Frequentava pochissimi amici, andava in pochissime case. Una di queste fu, per vent’anni, quella degli Halévy: tra il 1877 e il 1897 rari erano i giorni in cui non pranzasse o cenasse da loro, perché lì si sentiva accolto, e finanche protetto, da quello «spirito Halévy», da quella «secchezza degli Halévy, che aveva agito nell’operetta come nelle battute di Oriane de Guermantes». Ad ascoltare, affascinato, le parole di Degas, c’era un ragazzo, che poi le annotava accuratamente nel suo diario. E che nel 1960, quasi ottantottenne, si decise a pubblicarle. Grazie a Daniel Halévy scopriamo, di colui che sin dall’adolescenza gli aveva dato «un’idea precisa di cosa fosse la grandezza», le battute fulminanti e i paradossi acuminati, il rigore scontroso e i furori intellettuali. Ma anche lo stupore incantato con cui Degas ascoltava, o narrava lui stesso, una fiaba delle Mille e una notte, o la «gioia infantile» che gli dava leggere agli amici uno dei suoi sonetti. Più di ogni altro, Daniel Halévy ha saputo cogliere il suono della «sua bella voce», soprattutto quando era «intima e sofferta» – quando lasciava affiorare l’ombra tormentosa di quella «catastrofe inconfessata» che aveva segnato la sua esistenza.

 

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Italo Calvino, Leonardo Sciascia – L’illuminismo mio e tuo. Carteggio 1953-1985 [LDB]

Il 19 maggio 1953 Leonardo Sciascia scrive a Italo Calvino, funzionario dell’Einaudi, chiedendo un libro da recensire. E lo invita a collaborare alla rivista «Galleria». È l’inizio di un fitto scambio epistolare tra i due che continuerà fino alla morte di Calvino, e che è stato integralmente ricostruito in queste pagine: 145 tra lettere, biglietti, cartoline, telegrammi. Il carteggio restituisce il loro rapporto di stima e amicizia: l’incontro, il reciproco scoprirsi e intendersi, la pubblicazione di molte delle loro opere, il parziale allontanamento degli anni Settanta; sullo sfondo, quell’Italia democristiana della guerra fredda, tra il boom e il terrorismo, che Calvino e Sciascia seppero interpretare, pur in modi così diversi, come pochi altri. I due scrittori appaiono infatti legati da profonde affinità intellettuali e biografiche – l’età, la formazione culturale, la vocazione razionale e “illuminista”, l’impegno politico e civile, l’idea, soprattutto, che la letteratura sia qualcosa di fondamentale –, ma anche divisi da esperienze differenti: le loro sono storie diverse, che per un lungo tratto si sono intrecciate, illuminandosi a vicenda. E le missive qui raccolte, completate da scritti critici reciproci, danno conto proprio di questo intreccio: un dialogo quanto mai fecondo che, tra discussioni su premi letterari, immagini di copertina, libri vecchi e nuovi, costituisce uno dei carteggi più significativi del Novecento letterario italiano.

 

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William Gaddis – Le perizie [LDB]

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Le perizie è il capolavoro nascosto del secondo Novecento americano. Un’opera monumentale sulla menzogna e la mistificazione che ha anticipato e ispirato i capolavori di Thomas Pynchon, Don DeLillo e David Foster Wallace.

Negli anni cinquanta il Greenwich Village di New York è un formicaio brulicante di ambizioni, speranze, doppiezze e ipocrisie. Tra queste strade si muove una comunità di scrittorucoli e bohémien, tutti a loro modo falsari: dal signor Sinisterra, commerciante di banconote finte che viaggia con documenti contraffatti, all’aspirante drammaturgo Otto Pivner, che fa credere di avere un braccio rotto per mostrarsi engagé, fino al critico d’arte Crémer, che smercia giudizi insinceri in cambio di denaro. E poi c’è il pittore Wyatt Gwyon, che stringe un patto faustiano con il mercante d’arte Recktall Brown e per lui inizia a creare false tele di artisti fiamminghi. In un crescendo di bugie e malintesi, in cui dialoghi filosofici si alternano a scene da commedia degli equivoci, Wyatt comincia ad avvertire l’ansia dell’autenticità e ad arrovellarsi sulle questioni morali legate allo statuto di verità dell’arte. Sceglierà allora di recarsi in Spagna, nel luogo in cui sua madre è sepolta, sperando di chiudere così il cerchio della sua parabola di uomo e artista, e sfuggire al garbuglio di inganni in cui è rimasto avviluppato.

In questo romanzo d’esordio, Gaddis costruisce un microuniverso dalle impalcature fragili e posticce, che assomiglia pericolosamente alla società in cui ci troviamo: una vertigine narrativa in cui ogni verità assodata pare dissolversi appena la si afferra e in cui scoprire che solo accettando la realtà della finzione è possibile «vivere con animo risoluto» l’esistenza.

 

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Sándor Márai – Bébi, il primo amore [LDB]

«A ben vedere, nella mia vita non è suc­cesso nulla» annota nel suo diario il prota­gonista, e narratore, di questo romanzo: un professore di latino poco più che cin­quantenne, celibe, alieno da qualunque sentimento nei confronti dei propri simi­li, maniacalmente attaccato a una routine fatta di lezioni, passeggiate, serate al circo­lo, rare visite a una casa di tolleranza. Ma durante un soggiorno alle pendici dei monti Tátra qualcosa si incrina, nel suo corpo e nella sua mente: si accorge di esse­re triste, «costantemente in attesa di qual­cosa», al punto da confidarsi, quasi con­tro la propria volontà, con uno sconosciu­to per il quale sembrava provare solo ripu­gnanza. La crepa non farà che allargar­si quando gli verrà assegnata una classe dell’ultimo anno – e per di più una classe in cui sono presenti sei ragazze. Con raffinatissima, pressoché diabolica abilità Má­rai ci fa percepire, attraverso le parole stes­se del professore, i cambiamenti che av­vengono in lui allorché scopre che due dei suoi allievi stanno vivendo il primo amore – un primo amore che, sebbene sia incapa­ce di ammetterlo, forse sta sperimentan­do anche lui. E quando lo vedremo comprarsi un abito nuovo, tagliarsi la barba, accettare perfino che il barbiere gli fac­cia dei massaggi per cancellare le rughe, sapremo che, come accade a von Aschen­bach nella Morte a Venezia, il baratro che gli si è spalancato davanti non potrà che in­ghiottirlo. Appena ventottenne e al suo primo romanzo, Márai si rivela un acutis­simo indagatore d’anime, e un magistrale narratore.

 

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Lawrence Osborne – Santi e bevitori [LDB]

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Per curare l’alcolismo c’è chi si fa ricovera­re in una struttura specializzata, chi si affida a una terapia farmacologica, chi anco­ra pratica una ferrea astinenza. Lawrence Osborne ha una ricetta più originale: in­traprendere un viaggio nel mondo islamico per studiare come vivono gli astemi e scoprire se da loro si può imparare qual­cosa. L’esperienza sarà illuminante, teme­raria e – per la gioia di noi lettori – sempre irresistibilmente spassosa. Accompagneremo Osborne a caccia di una birra a Sura­ karta, presidio indonesiano di al-­Qaida, dove, sotto un ritratto di Osama bin Laden, un gruppo di studenti biancovestiti cer­cherà di convincerlo che l’alcol è «una ma­lattia dell’anima». A Mascate lo seguire­mo nell’affannosa ricerca di una bottiglia di champagne per brindare al nuovo an­no, mentre la sua vita di coppia sperimen­ta impreviste dinamiche dettate dalla so­brietà forzata. E trepideremo per lui a Isla­mabad, quando si lancerà nella sconside­rata «avventura culturale» di ubriacarsi «in uno dei paesi più pericolosi e ostili al­l’alcol» della terra. Ma, davanti a un bic­chiere, tutto il mondo è incline al parados­so: prova ne sono le cosiddette dry towns del New Jersey o certi sobborghi inglesi, do­ve fino a pochi decenni fa la «cultura subur­bana dell’alcol» era l’antidoto alla «cultura urbana della droga». E al termine di questo rocambolesco tour ci apparirà lampante che lo scontro di civiltà tra Oriente e Occi­dente altro non è che il riflesso di due ap­procci diametralmente opposti alla vita – temperanza e sregolatezza, continenza e dissolutezza, con i loro paladini, astemi e bevitori, per sempre affiancati «in uno spi­rito di reciproca incomprensione».

 

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Un terribile amore per la guerra – James Hillman

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In un momento chiave del celebre film sul generale Patton, un memorabile George C. Scott passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita».
È eloquente che James Hillman abbia scelto proprio questa scena, tanto spiazzante quanto rivelatrice, per introdurre il provocatorio tema del suo nuovo libro: la guerra come pulsione primaria e ambivalente della nostra specie – come pulsione, cioè, dotata di una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Il presupposto è che se di quella pulsione non si ha una visione lucida ogni opposizione alla guerra sarà vana.
Frantumando la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant –, Hillman risale così, in perfetta consonanza con la sua visione della psicologia, al carattere mitologico e arcaico di tale ambivalenza, riassunto nell’inseparabilità di Ares e Afrodite. In questa prospettiva tutte le guerre del passato e del presente appariranno quindi semplici variazioni della guerra più emblematica dell’Occidente classico, quella cantata nell’Iliade. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt –, Hillman ci guida a una scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – lo dimostra la contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.

 

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