Richard Sennett – L’uomo artigiano [LDB]

Saper fare bene le cose per il proprio piacere: una regola di vita semplice e rigorosa che ha consentito lo sviluppo di tecniche raffinatissime e la nascita della conoscenza scientifica moderna. Fabbri, orafi, liutai univano conoscenza materiale e abilità manuale: mente e mano funzionavano rinforzandosi, l’una insegnava all’altra e viceversa. Ma non è il solo lavoro manuale a giovarsi della sinergia tra teoria e pratica. Perché chi sa governare se stesso e dosare autonomia e rispetto delle regole, sostiene Sennett, non solo saprà costruire un meraviglioso violino, un orologio dal meccanismo perfetto o un ponte capace di sfidare i millenni, ma sarà anche un cittadino giusto. L’uomo artigiano racconta di ingegneri romani e orafi rinascimentali, di tipografi parigini del Settecento e fabbriche della Londra industriale, un percorso storico attraverso cui Sennett ricostruisce le linee di faglia che separano tecnica ed espressione, arte e artigianato, creazione e applicazione. Il miglior esempio di “saper fare” moderno? il gruppo che ha creato Linux, gli artigiani della moderna cattedrale informatica.

 

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Maurice Halbwachs – I quadri sociali della memoria [LDB]

I quadri sociali della memoria costituisce il testo fondativo dell’approccio sociologico alla memoria. L’opera interroga la nostra relazione con il tempo e con la storia: in dialogo con il filosofo Henri Bergson, Maurice Halbwachs propone la tesi radicale secondo la quale i processi del ricordo – abitualmente attribuiti a facoltà mentali strettamente individuali – sono in realtà socialmente determinati.
Il volume ha inaugurato quella linea di ricerca che avrebbe lavorato sulla nozione di memoria collettiva riconoscendola come centrale per la definizione delle condizioni di possibilità dei processi identitari dei gruppi sociali. Oggi torna in libreria in un’edizione rinnovata e arricchita di alcuni testi centrali per la sua comprensione – come le recensioni che lo storico Marc Bloch e lo psicologo Charles Blondel ne fecero subito dopo la sua prima edizione, nel 1925 – così da mettere a disposizione del pubblico italiano un classico sociologico di straordinaria attualità.

 

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Daniel Halévy – Degas parla [LDB]

Edgar Degas era schivo, taciturno, intransigente. E molto solo, perché solo, e isolato (soprattutto dagli artisti suoi contemporanei) voleva essere. Frequentava pochissimi amici, andava in pochissime case. Una di queste fu, per vent’anni, quella degli Halévy: tra il 1877 e il 1897 rari erano i giorni in cui non pranzasse o cenasse da loro, perché lì si sentiva accolto, e finanche protetto, da quello «spirito Halévy», da quella «secchezza degli Halévy, che aveva agito nell’operetta come nelle battute di Oriane de Guermantes». Ad ascoltare, affascinato, le parole di Degas, c’era un ragazzo, che poi le annotava accuratamente nel suo diario. E che nel 1960, quasi ottantottenne, si decise a pubblicarle. Grazie a Daniel Halévy scopriamo, di colui che sin dall’adolescenza gli aveva dato «un’idea precisa di cosa fosse la grandezza», le battute fulminanti e i paradossi acuminati, il rigore scontroso e i furori intellettuali. Ma anche lo stupore incantato con cui Degas ascoltava, o narrava lui stesso, una fiaba delle Mille e una notte, o la «gioia infantile» che gli dava leggere agli amici uno dei suoi sonetti. Più di ogni altro, Daniel Halévy ha saputo cogliere il suono della «sua bella voce», soprattutto quando era «intima e sofferta» – quando lasciava affiorare l’ombra tormentosa di quella «catastrofe inconfessata» che aveva segnato la sua esistenza.

 

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Italo Calvino, Leonardo Sciascia – L’illuminismo mio e tuo. Carteggio 1953-1985 [LDB]

Il 19 maggio 1953 Leonardo Sciascia scrive a Italo Calvino, funzionario dell’Einaudi, chiedendo un libro da recensire. E lo invita a collaborare alla rivista «Galleria». È l’inizio di un fitto scambio epistolare tra i due che continuerà fino alla morte di Calvino, e che è stato integralmente ricostruito in queste pagine: 145 tra lettere, biglietti, cartoline, telegrammi. Il carteggio restituisce il loro rapporto di stima e amicizia: l’incontro, il reciproco scoprirsi e intendersi, la pubblicazione di molte delle loro opere, il parziale allontanamento degli anni Settanta; sullo sfondo, quell’Italia democristiana della guerra fredda, tra il boom e il terrorismo, che Calvino e Sciascia seppero interpretare, pur in modi così diversi, come pochi altri. I due scrittori appaiono infatti legati da profonde affinità intellettuali e biografiche – l’età, la formazione culturale, la vocazione razionale e “illuminista”, l’impegno politico e civile, l’idea, soprattutto, che la letteratura sia qualcosa di fondamentale –, ma anche divisi da esperienze differenti: le loro sono storie diverse, che per un lungo tratto si sono intrecciate, illuminandosi a vicenda. E le missive qui raccolte, completate da scritti critici reciproci, danno conto proprio di questo intreccio: un dialogo quanto mai fecondo che, tra discussioni su premi letterari, immagini di copertina, libri vecchi e nuovi, costituisce uno dei carteggi più significativi del Novecento letterario italiano.

 

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William Gaddis – Le perizie [LDB]

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Le perizie è il capolavoro nascosto del secondo Novecento americano. Un’opera monumentale sulla menzogna e la mistificazione che ha anticipato e ispirato i capolavori di Thomas Pynchon, Don DeLillo e David Foster Wallace.

Negli anni cinquanta il Greenwich Village di New York è un formicaio brulicante di ambizioni, speranze, doppiezze e ipocrisie. Tra queste strade si muove una comunità di scrittorucoli e bohémien, tutti a loro modo falsari: dal signor Sinisterra, commerciante di banconote finte che viaggia con documenti contraffatti, all’aspirante drammaturgo Otto Pivner, che fa credere di avere un braccio rotto per mostrarsi engagé, fino al critico d’arte Crémer, che smercia giudizi insinceri in cambio di denaro. E poi c’è il pittore Wyatt Gwyon, che stringe un patto faustiano con il mercante d’arte Recktall Brown e per lui inizia a creare false tele di artisti fiamminghi. In un crescendo di bugie e malintesi, in cui dialoghi filosofici si alternano a scene da commedia degli equivoci, Wyatt comincia ad avvertire l’ansia dell’autenticità e ad arrovellarsi sulle questioni morali legate allo statuto di verità dell’arte. Sceglierà allora di recarsi in Spagna, nel luogo in cui sua madre è sepolta, sperando di chiudere così il cerchio della sua parabola di uomo e artista, e sfuggire al garbuglio di inganni in cui è rimasto avviluppato.

In questo romanzo d’esordio, Gaddis costruisce un microuniverso dalle impalcature fragili e posticce, che assomiglia pericolosamente alla società in cui ci troviamo: una vertigine narrativa in cui ogni verità assodata pare dissolversi appena la si afferra e in cui scoprire che solo accettando la realtà della finzione è possibile «vivere con animo risoluto» l’esistenza.

 

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Sándor Márai – Bébi, il primo amore [LDB]

«A ben vedere, nella mia vita non è suc­cesso nulla» annota nel suo diario il prota­gonista, e narratore, di questo romanzo: un professore di latino poco più che cin­quantenne, celibe, alieno da qualunque sentimento nei confronti dei propri simi­li, maniacalmente attaccato a una routine fatta di lezioni, passeggiate, serate al circo­lo, rare visite a una casa di tolleranza. Ma durante un soggiorno alle pendici dei monti Tátra qualcosa si incrina, nel suo corpo e nella sua mente: si accorge di esse­re triste, «costantemente in attesa di qual­cosa», al punto da confidarsi, quasi con­tro la propria volontà, con uno sconosciu­to per il quale sembrava provare solo ripu­gnanza. La crepa non farà che allargar­si quando gli verrà assegnata una classe dell’ultimo anno – e per di più una classe in cui sono presenti sei ragazze. Con raffinatissima, pressoché diabolica abilità Má­rai ci fa percepire, attraverso le parole stes­se del professore, i cambiamenti che av­vengono in lui allorché scopre che due dei suoi allievi stanno vivendo il primo amore – un primo amore che, sebbene sia incapa­ce di ammetterlo, forse sta sperimentan­do anche lui. E quando lo vedremo comprarsi un abito nuovo, tagliarsi la barba, accettare perfino che il barbiere gli fac­cia dei massaggi per cancellare le rughe, sapremo che, come accade a von Aschen­bach nella Morte a Venezia, il baratro che gli si è spalancato davanti non potrà che in­ghiottirlo. Appena ventottenne e al suo primo romanzo, Márai si rivela un acutis­simo indagatore d’anime, e un magistrale narratore.

 

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Lawrence Osborne – Santi e bevitori [LDB]

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Per curare l’alcolismo c’è chi si fa ricovera­re in una struttura specializzata, chi si affida a una terapia farmacologica, chi anco­ra pratica una ferrea astinenza. Lawrence Osborne ha una ricetta più originale: in­traprendere un viaggio nel mondo islamico per studiare come vivono gli astemi e scoprire se da loro si può imparare qual­cosa. L’esperienza sarà illuminante, teme­raria e – per la gioia di noi lettori – sempre irresistibilmente spassosa. Accompagneremo Osborne a caccia di una birra a Sura­ karta, presidio indonesiano di al-­Qaida, dove, sotto un ritratto di Osama bin Laden, un gruppo di studenti biancovestiti cer­cherà di convincerlo che l’alcol è «una ma­lattia dell’anima». A Mascate lo seguire­mo nell’affannosa ricerca di una bottiglia di champagne per brindare al nuovo an­no, mentre la sua vita di coppia sperimen­ta impreviste dinamiche dettate dalla so­brietà forzata. E trepideremo per lui a Isla­mabad, quando si lancerà nella sconside­rata «avventura culturale» di ubriacarsi «in uno dei paesi più pericolosi e ostili al­l’alcol» della terra. Ma, davanti a un bic­chiere, tutto il mondo è incline al parados­so: prova ne sono le cosiddette dry towns del New Jersey o certi sobborghi inglesi, do­ve fino a pochi decenni fa la «cultura subur­bana dell’alcol» era l’antidoto alla «cultura urbana della droga». E al termine di questo rocambolesco tour ci apparirà lampante che lo scontro di civiltà tra Oriente e Occi­dente altro non è che il riflesso di due ap­procci diametralmente opposti alla vita – temperanza e sregolatezza, continenza e dissolutezza, con i loro paladini, astemi e bevitori, per sempre affiancati «in uno spi­rito di reciproca incomprensione».

 

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Un terribile amore per la guerra – James Hillman

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In un momento chiave del celebre film sul generale Patton, un memorabile George C. Scott passeggia per il campo di battaglia a combattimento finito: terra sventrata, carri armati bruciati, cadaveri. Volgendo lo sguardo a quello scempio, esclama: «Come amo tutto questo. Che Dio mi aiuti, lo amo più della mia vita».
È eloquente che James Hillman abbia scelto proprio questa scena, tanto spiazzante quanto rivelatrice, per introdurre il provocatorio tema del suo nuovo libro: la guerra come pulsione primaria e ambivalente della nostra specie – come pulsione, cioè, dotata di una carica libidica non inferiore a quella di altre pulsioni che la contrastano e insieme la rafforzano, quali l’amore e la solidarietà. Il presupposto è che se di quella pulsione non si ha una visione lucida ogni opposizione alla guerra sarà vana.
Frantumando la retorica degli adagi progressisti – basati su una lettura caricaturale della «pace perpetua» teorizzata da Kant –, Hillman risale così, in perfetta consonanza con la sua visione della psicologia, al carattere mitologico e arcaico di tale ambivalenza, riassunto nell’inseparabilità di Ares e Afrodite. In questa prospettiva tutte le guerre del passato e del presente appariranno quindi semplici variazioni della guerra più emblematica dell’Occidente classico, quella cantata nell’Iliade. Ma soprattutto, ricorrendo a dettagliati rapporti dal fronte, a lettere di combattenti, ad analisi di esperti in strategia – oltre che a tutti gli scrittori e tutti i filosofi che alla guerra hanno tributato meditazioni decisive, da Twain a Tolstoj, da Foucault a Hannah Arendt –, Hillman ci guida a una scandalosa verità: più che un’incarnazione del Male, la guerra è in ogni epoca – lo dimostra la contiguità tra le descrizioni omeriche e i reportage dal Vietnam – una costante della dimensione umana. O meglio, troppo umana.

 

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Giulio Cesare – William Shakespeare

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La storia è nota: Bruto amava Cesare, ma amava di più Roma. Dall’ombra di Plutarco ecco venire ancora una volta alla ribalta Giulio Cesare l’epilettico, leone cacciatore prima, cervo cacciato poi, «stella polare» in un corpo che da dittatore perpetuo si muterà presto in vittima sacrificale, nella congiura più celebre della storia antica. «C’è la guerra civile nel cielo» leggiamo nelle pagine iniziali di questa tragedia, uno dei testi più luminosi e meno frequentati del canone shakespeariano. Sulla terra sarà guerra fratricida: Bruto lo stoico, sdegnoso, inclemente, dalla parte della ragione ma in perenne «guerra con se stesso»; Cassio l’epicureo, magro, famelico, che «legge troppo»; Antonio, «bellimbusto dissoluto e nottambulo», espressione della Realpolitik – a cui si aggiungono frange schiumanti del popolo, con i suoi conati di democrazia selvaggia. Il lavoro in mano ai congiurati è «bruciante, sanguinoso, terribilissimo»: si credono guaritori, non sanno di essere macellai; per comune denominatore hanno la morte. Sorretto da «una lingua più forte di ogni musica», il Giulio Cesare mette a nudo l’essenza violenta del teatro. E il defunto sovrano, futuro dio, continuerà a ricevere la sua razione di ventitré pugnalate, nel suo eterno ritorno sulla scena.

 

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Elias Canetti – Processi. Su Franz Kafka [LDB]

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Le lettere di Kafka a Felice Bauer raccontano qualcosa di più di un’impossibile storia d’amore: Elias Canetti se ne rese conto nel 1967 leggendone una selezione sulla «Neue Rundschau», e immediatamente si accordò con l’editore della rivista per pubblicare un saggio sull’argomento. Fu l’inizio di un corpo a corpo, dove l’interpretazione chiamava in causa la vita dell’autore – la sua persona fisica, la magrezza, l’ipocondria, l’ossessione per la notte e il silenzio – e insieme quella dell’interprete. L’esito di tale scontro fu L’altro processo, che irritò per la spregiudicatezza con la quale Canetti riconduceva l’opera di Kafka (e la più ermeticamente sigillata, Il processo) alla sua biografia (la rottura del fidanzamento con Felice) – proprio lui che aveva sempre lottato perché quell’opera venisse presa alla lettera. Grazie agli appunti preparatori, molti dei quali inediti, qui raccolti insieme ad altri saggi e conferenze su Kafka, possiamo immergerci per la prima volta in quel «processo» di avvicinamento, fatto di violenze, fughe e sottomissioni, quasi ci trovassimo di fronte alla descrizione di una battaglia sovrapposta a una confessione cifrata. «Non credo che vi siano persone la cui condizione interiore sia simile alla mia, o almeno posso immaginarmi tali persone, ma che attorno alle loro teste voli continuamente il corvo segreto come attorno alla mia, questo non riesco neppure a immaginarlo» annotò una volta Kafka nei suoi Diari. Oggi, leggendo finalmente nella loro totalità queste pagine, possiamo dire che si sbagliava.

 

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