Laszlo Krasznahorkai – Satantango

Satantango

Il comunismo e` ormai al tramonto e nella fangosa campagna ungherese quel che resta di una comunita` di individui abbrutiti vive una vita senza speranza in una cooperativa agricola ormai in sfacelo. Tutti vogliono andarsene e sperano in un futuro migliore grazie al denaro che riceveranno dalla chiusura della loro fattoria collettiva. Quando all’improvviso si diffonde la notizia che il carismatico Irimia´s, sparito due anni prima e dato ormai da tutti per morto, e` stato visto sulla strada che porta al villaggio e sta per tornare pare un miracolo. E` l’inizio dell’attesa, dell’avvento incombente di qualcosa che li puo` liberare ma che avra` pesanti conseguenze sulle loro vite disperate. Si troveranno infatti a far fronte non solo alle astuzie di Irimia´s, ma anche ai conflitti che li dividono. Questo capolavoro dark, primo libro di Krasznahorkai pubblicato nel 1985 in Ungheria, e` ormai considerato un vero e proprio classico contemporaneo.

Sándor Márai – Terra, terra!…

Nel 1969, dopo vent’anni di esilio (e trentacinque dalla pubblicazione delle Confessioni di un borghese, il primo suo volume di memorie), Márai decide di sfogliare quell’album di immagini morte che si porta dentro e di raccontare gli anni atroci del dopoguerra. In un montaggio implacabile e sontuoso ci fa sfilare quelle immagini davanti agli occhi: dall’apparizione fantasmagorica dei russi sulla sponda del Danubio alle rovine di Budapest, dove Márai va a cercare quel che è rimasto della «vecchia vita» e trova la sua casa ridotta a un cumulo di macerie. E poi il faticoso ritorno a una parvenza di normalità in una città dove tutti odiano tutti. E ancora il tentativo, nell’aprile del ’46, di ritrovare quell’Europa tanto amata e idealizzata, che ora gli appare «sterile, dal vago odore di cadavere, come immersa nella formalina». Sarà, una volta ancora, il desiderio di scrivere nella lingua materna a fargli decidere di tornare in un Paese mutilato, dissanguato, atterrito, sul quale il feroce processo di sovietizzazione stende una ragnatela che si fa «ogni giorno più fitta e appiccicosa». Infine, dopo un anno e mezzo, nel settembre del 1948, quando gli è stata ormai tolta la libertà di scrivere («Il papa letterario dei comunisti, uno studioso di estetica di nome György Lukács,» annota Márai nel diario «mi decapita nella rivista del suo partito») e, soprattutto, la libertà di tacere, la decisione di andare via, o meglio di «andare verso qualcosa». A spingerlo è la «nostalgia della Terra»: il desiderio di «vedere quello che dalla coffa dell’albero maestro della caravella di Colombo aveva visto il mozzo quando, all’alba, con la voce rotta dall’emozione, aveva gridato: “Terra, terra!…”». Fra i molti che hanno raccontato quegli anni in Europa, Márai spicca per la potenza della parola, per la perfetta lucidità della mente e per la sua capacità di mostrarci la guerra e ciò che ad essa è seguito come varianti di un identico orrore.

Sándor Márai – Il sangue di San Gennaro

«A Pasqualino, perché aveva sei anni e ogni mattina portava giù l’immondizia, al pescatore monco, perché ammansiva il mare, a santo Strato, perché proteggeva il palazzo e i malati»: a loro Márai dedica il suo «romanzo napoletano», ambientato nella città dove visse dal ’48 al ’52, prima di partire per gli Stati Uniti. A formare il vasto coro, lacero e sgargiante, che commenta la vicenda intorno a cui è costruito il libro sono gli uomini, le donne e i bambini della città, con la loro miseria, il loro lerciume, la loro fatica di vivere e il loro orgoglio ancestrale di aristocratici; e le interminabili chiacchiere, le liti che scoppiano furibonde, teatrali, ritualizzate, da una finestra all’altra, i lutti non meno teatrali e urlati, i santi arcigni e polverosi dentro le teche di vetro – con la loro umanità piagata e ghignante. Un intero popolo che, fra tutte le possibilità, crede che «la più verosimile» sia il miracolo. Un giorno, dalle parti di Capo Posillipo, vanno ad abitare due stranieri, un uomo e una donna (inglesi? polacchi?): displaced persons, così li definiscono le autorità, profughi. Anche loro, almeno per un po’, crederanno che lì possa avvenire il miracolo. Ma durante una violenta tromba d’aria si verificherà un evento che avrà il senso di una delusione assoluta, di una sconfitta inappellabile, poiché sancirà l’impossibilità di credere che ci sia un futuro per chi, in quanto esule, ha perso la propria identità. Alla fine, rimarranno il Vesuvio, il mare, e per ultimo il vento: «Li ho visti andare e venire, attraverso continenti e oceani, ma ho nascosto le tracce dei loro passi. Dove soffio io, non resta più nulla. Sono io che dico l’ultima parola. E poi verrà il silenzio».

Sándor Márai – Liberazione

Dicembre 1944. L’armata rossa, che già dall’inizio di novembre è arrivata alla periferia di Budapest, sta per completare l’accerchiamento della città. L’antivigilia di Natale una ragazza di venticinque anni, Erzsébet, che già da mesi vive braccata, sotto falsa identità, riesce a trovare un estremo nascondiglio per il padre: il vecchio, un celebre scienziato a cui gli squadroni fascisti delle croci frecciate danno la caccia, verrà murato, insieme ad altre cinque persone, in una cantina grande quanto una dispensa. Erzsébet, invece, scenderà nello scantinato del palazzo dove vive, insieme a tutti gli abitanti di quello e di altri palazzi dei dintorni. Ci rimarranno per quattro settimane, quanto durerà il terribile assedio, mentre sopra le loro teste infuriano i combattimenti. In quel mondo sotterraneo maleodorante e caotico, in una «promiscuità da porcile», mentre fra la gente ammassata sui materassi si scatenano tensioni sempre più acute, Erzsébet aspetta «qualcosa» – qualcosa che si riassume in una parola: liberazione. Tra poco i russi saranno qui, pensa, e tutto cambierà. Finalmente, nella notte fra il 18 e il 19 gennaio, vedrà la sagoma del primo russo stagliarsi sotto la porta: ma quell’incontro sarà ben diverso da come se l’era immaginato. Con Liberazione, Márai ci ha lasciato una testimonianza bruciante dell’orrore che un’intera città, la sua, aveva vissuto in quei mesi, assediata dai sovietici, bombardata dagli Alleati e sottoposta ai rabbiosi rastrellamenti degli sconfitti. Né, quando scriveva le ultime righe del libro nel settembre del 1945, si faceva più illusioni sul regime che l’armata rossa era venuta a instaurare nel suo Paese.

Sándor Márai – La sorella

«Fu quello il momento in cui “cominciò”, in cui la mia vita si separò da tutto quello che precedentemente ne aveva costituito la condizione e il senso, in cui qualcosa in me morì, e io allo stesso tempo rinacqui, come se fossi morto per la vita e nato per la morte». A poche ore dal confine italiano, nel vagone letto di prima classe di un treno diretto a Firenze, Z. – il grande, celebre pianista atteso in Italia per un concerto – capisce che nulla sarà mai più come prima: che forse non rivedrà più E., la donna alla quale è legato da un rapporto ambiguo e morboso, in un triangolo il cui terzo vertice è un marito consapevole e benigno; che forse quella sera suonerà per l’ultima volta (e suonerà Chopin, perché la radio ha appena dato la notizia della caduta di Varsavia); che tutto, insomma, sarà «diverso». Ma diverso come? Gli ci vorranno mesi per capirlo: quelli che trascorrerà, colpito da un rarissimo virus, in un ospedale di Firenze dove verrà condotto subito dopo il concerto. Di rado un romanzo ha saputo raccontare la malattia con tale precisione, tensione, crudezza, in una osmosi allucinatoria tra fisico e psichico. Stremato dalle feroci, subdole aggressioni del dolore, o stordito da misericordiose iniezioni di morfina, Z. compirà un vero e proprio attraversamento della morte. Ad accompagnarlo «sull’altra sponda» saranno quattro entità femminili – «angeliche ruffiane», presenze vigili e benefiche ma anche inquietanti, a volte, e sempre sfuggenti –, quattro suore. E nel momento in cui sembrerà che Z. abbia definitivamente rinunciato a lottare sarà proprio una di loro a dirgli: «Non voglio che lei muoia». Ma quale? Per quante ipotesi faccia, Z. non riuscirà mai a stabilire con assoluta certezza a chi appartenga la voce che una notte, nel buio della stanza, gli ha chiesto di vivere. Eppure sarà proprio quella «forza femminile», quella energia che agisce mascherata, a lottare per lui, e a ricondurlo alla vita – anche se con tracce indelebili di quel che ha patito.

Sándor Márai – Le braci

Come un Roth o uno Schnitzler allo stato incandescente: così ci appare oggi, fin dalle prime pagine, questo superbo romanzo. Ma anche, si potrebbe aggiungere, come una sequenza di scene viste attraverso l’obiettivo di Max Ophüls. Quanto all’autore, Sándor Márai fu uno di quei grandi a cui accadde, per un certo tratto della loro vita, di essere famosi e che i cataclismi politici finirono poi per relegare ai margini. Questo libro riaffiora dunque dall’oblio – con il gesto imperioso di qualcosa che non si potrà più dimenticare.
Dopo quarantun anni, due uomini, che da giovani sono stati inseparabili (una di quelle amicizie maschili non meno intense del rapporto fra due gemelli monozigoti), tornano a incontrarsi in un castello ai piedi dei Carpazi. Uno ha passato quei decenni in Estremo Oriente, l’altro non si è mosso dalla sua proprietà. Ma entrambi hanno vissuto in attesa di quel momento. Null’altro contava, per loro. Perché? Perché condividono un segreto che possiede una forza singolare: «una forza che brucia il tessuto della vita come una radiazione maligna, ma al tempo stesso dà calore alla vita e la mantiene in tensione». Tutto converge verso un «duello senza spade» – e ben più crudele. Tra loro, nell’ombra, il fantasma di una donna. E il lettore sente la tensione salire, riga dopo riga, fino all’insostenibile, mentre scorre una prosa incalzante, nitida, senza scampo.

Sándor Márai – La donna giusta

Un pomeriggio, in una elegante pasticceria di Budapest, davanti a un gelato al pistacchio, una donna racconta a un’altra donna come un giorno, avendo trovato nel portafogli di suo marito un pezzetto di nastro viola, abbia capito che nella vita di lui c’era stata, e forse c’era ancora, una passione segreta e bruciante, e come da quel momento abbia cercato, invano, di riconquistarlo. Una notte, in un caffè della stessa città, bevendo vino e fumando una sigaretta dopo l’altra, l’uomo che è stato suo marito racconta a un altro uomo come abbia aspettato per anni una donna che era diventata per lui una ragione di vita e insieme «un veleno mortale», e come, dopo aver lasciato per lei la prima moglie, l’abbia sposata – e poi inesorabilmente perduta. All’alba, in un alberghetto di Roma, sfogliando un album di fotografie, questa stessa donna racconta al suo amante (un batterista ungherese) come lei, la serva venuta dalla campagna, sia riuscita a sposare un uomo ricco, e come nella passione possa esserci ferocia, risentimento, vendetta. Molti anni dopo, nel bar di New York dove lavora, sarà proprio il batterista a raccontare a un esule del suo stesso paese l’epilogo di tutta la storia – e in qualche modo a tirarne le fila. Al pari delle Braci e di Divorzio a Buda, questo romanzo appartiene al periodo più felice e incandescente dell’opera di Márai, quegli anni Quaranta in cui lo scrittore sembra aver voluto fissare in perfetti cristalli alcuni intrecci di passioni e menzogne, di tradimenti e crudeltà, di rivolte e dedizioni che hanno una stupefacente capacità di parlare a ogni lettore.
Nel 1941 Márai pubblicò Az igazi [La donna giusta], un romanzo composto di due lunghi monologhi; per l’edizione tedesca del 1949 (Wandlungen der Ehe) ne aggiunse un terzo, scritto durante il suo esilio italiano; nel 1980 quest’ultimo fu da lui rielaborato e dato alle stampe, insieme all’epilogo, con il titolo Judit… és az utóhang [Judit… e un epilogo]. La presente edizione raduna per la prima volta le quattro parti del romanzo

Sándor Márai – Sinbad torna a casa

Sindbad era lo pseudonimo sotto il quale si celava il narratore ungherese Gyula Krúdy, dandy tenebroso, personaggio leggendario della bohème letteraria di Budapest del primo Novecento, celebre autore di numerose novelle e romanzi. Márai lo considerava suo maestro, e lo amò a tal punto che non solo gli dedicò un gran numero di scritti e citazioni sparse, ma ne fece anche il protagonista di questo libro. Dove, in una mattina di maggio, Sindbad esce dalla sua abitazione nel sobborgo di Óbuda con l’intenzione, una volta tanto, di tornare presto e provvisto di denaro e regali per la figlia e la moglie, la donna che «aveva portato nella vita di Sindbad, che stava diventando vecchio, tutto ciò che per cinquantacinque anni il marinaio aveva cercato invano negli ambienti dei caffè, delle stanze riservate ai giocatori di carte, delle bettole impregnate dell’odore di salnitro». Ma dopo aver ceduto alla tentazione di salire su una carrozza pubblica – una delle ultime –, i buoni propositi cominciano impercettibilmente a svaporare, perché «nel rollio di quelle vecchie carrozze a due cavalli di Pest, con le loro molle rotte, c’era ancora qualcosa che ricordava il ritmo fluttuante e oscillante dell’altra vita», il mondo dell’Ungheria di un tempo. E come in sogno, lasciandosi scivolare in una morbida flânerie, Sindbad rivisita quel mondo scomparso vagabondando e indugiando nei luoghi che ancora ne conservano le tracce: dal bagno turco, dove «Occidente e Oriente si confondevano nella nebbia bollente», ai caffè – «pacifiche isole della solitudine, della meditazione, della memoria e dei passatempi silenziosi» –, a uno di quei ristoranti dove ancora si avverte, «nel profumo dello spezzatino e nell’acidulo odore di birra», la sensazione di vita che pervade l’ungherese allorché legge i grandi poeti nazionali. Per imboccare infine la via di casa solo verso l’alba – prendendo congedo, forse per sempre, da quella città dove tutto pare dimezzato, «come se il piccone del tempo avesse demolito il nobile, prestigioso edificio del passato».

Sándor Márai – La recita di Bolzano

«Un gentiluomo di Venezia!»: così si presenta alla Locanda del Cervo, con gli abiti a brandelli e macchiati di sangue, non avendo con sé altro bagaglio che il suo pugnale e la sua tracotanza, quel famigerato avventuriero in cui i lettori riconosceranno senza esitazione Giacomo Casanova. Ma perché, ora che dopo la rocambolesca fuga dai Piombi potrebbe riprendere la sua esistenza libertina in giro per le corti d’Europa, dove i potenti sono pronti ad aprirgli le porte dei loro palazzi e le donne più belle ad accoglierlo nelle loro alcove, perché proprio ora Giacomo si trattiene così a lungo a Bolzano, in questa città tanto «seria e virtuosa», «ordinata e piena di buon senso», e quindi a lui «maledettamente estranea»? Perché ha un appuntamento con il destino, ci suggerisce Márai. Perché lui, che appartiene a quella razza di uomini «che cerca di placare la propria sete bevendo indifferentemente da un truogolo o da un calice di cristallo», sta per incontrare colei che è l’Unica: l’unica donna che abbia amato, l’unica capace, forse, di dargli quella pienezza di vita che solo l’amore in quanto dono assoluto di sé può dare. Per lei, perché guarisca da lui, il vecchio commediante accetterà il più bizzarro, e il più difficile, degli ingaggi: rappresentare, in una notte sola, tutti i furori e tutti i disinganni della passione. Ma nel corso dell’impeccabile messinscena accadrà qualcosa di totalmente imprevisto – anche se poi nessuno meglio di Giacomo sa che «l’Unica rimane tale soltanto finché è ricoperta dai veli misteriosi e dai drappi segreti del desiderio e della nostalgia»…

Sándor Márai – Divorzio a Buda

Perché l’incantesimo sia spezzato, perché le mura della fortezza non crollino appena costruite, occorrerà murare vivo un essere amato, e toccherà alla moglie del capo dei muratori: così narra la ballata popolare che Márai mette in epigrafe a questo romanzo. E proprio Kömives, in ungherese muratore, si chiama il protagonista – e forse anche lui ha dovuto soffocare qualcosa di vivo perché la sua sobria, regolata esistenza di giudice integerrimo, marito esemplare, e strenuo censore di tutti quegli aspetti della vita moderna che minacciano di sovvertire l’ordine sociale, possa restare salda sulle sue fondamenta. Ma ciò che è stato murato e soffocato prima o poi riemerge. Accade, come per caso, allorché Kristóf Kömives si trova a dover sciogliere dal vincolo matrimoniale Imre Greiner, un medico che è stato suo compagno di scuola, e Anna Fazekas, che il giudice aveva incontrato qualche volta, molto tempo prima, all’epoca in cui lui era ancora un giovane praticante legale e lei una «ragazza da marito». Ma la sera che precede l’udienza Kömives, rincasando a tarda ora, trova ad aspettarlo Greiner, e da lui apprende che un evento atroce è sopravvenuto a rendere inutile la sentenza. Nel corso di un tormentato faccia a faccia che durerà fino alle prime luci dell’alba, Greiner racconterà a Kömives la sua storia con Anna – e soprattutto pretenderà da lui una risposta, prima che tutto sia finito. A sua volta, Kömives scoprirà le verità che i sogni della notte svelano e le luci del giorno non possono che occultare. Un triangolo amoroso tutto intessuto di passioni negate, di silenzi e di impossibili confessioni: questo il tema di Divorzio a Buda, che Márai scrisse pochi anni prima delle Braci e che del capolavoro a venire ha già tutta la magistrale, implacabile, bruciante esattezza.