Alberto Savinio – Infanzia di Nivasio Dolcemare

cover0001«Il giorno in cui Nivasio Dolcemare uscì dal grembo materno, il sole picchiava a martello sulla città della civetta». Con questa mitica «espulsione» prende avvio uno dei libri più euforici, esuberanti e visionari di Savinio: libro che è insieme ricostruzione dell’infanzia, della pubertà e dell’adolescenza del protagonista (ma in realtà dell’infanzia, della pubertà e dell’adolescenza tout court) e affresco smagliante e iperreale di un’Atene solare e irrimediabilmente decaduta. Memorabili sono i momenti che scandiscono la formazione di Nivasio a opera dei due bizzarri genitori, il commendatore Visanio e la signora Trigliona, ma non meno memorabile è la capitale, con la luna che brilla sulle vetrate della fabbrica di birra, i corvi che volano nel cielo a due a due, le ossa calcinate dei somari che tracciano le strade bianche; e altrettanto memorabili sono le mille figure che la animano, dal marchese Raúl detto l’imbecille al barone e alla baronessa von Ràthibor, dal pittore Ermenegildo Bonfiglioli, specializzato in «tondeggiamenti tiepoleschi», alla giovane Pertilina «lieve come ombra» e «profumata di purezza». Il tutto in una prosa vorticante ed esplosiva, dove una sintassi classicistica si carica di invenzioni lessicali sontuose o grezze, creando un impasto sonoro senza precedenti nella prosa italiana.

Alberto Savinio – Tragedia dell’infanzia

cover0001Per Savinio, l’infanzia non è un tempo ma un «tempio», cioè un luogo, una dimensione dello spirito. Un luogo, anzitutto, fisico e geografico: la Grecia d’inizio secolo, dalla luminosità abbagliante e quasi sgomentante, in cui scintillano ricordi come la nave Andromeda coi suoi «ùluli prepotenti», il teatro Lanarà col suo odore di alghe e segatura, la città – «veduta in sogno» – della villeggiatura, ma soprattutto la cresta prepotente del Pelio che si erge di fronte alla finestra della «camera dei giochi». E un luogo, inoltre, metafisico e doloroso, in cui la mente del bambino da un lato vede e percepisce cose interdette a quella dell’adulto (il «potere stregonesco» della zanzariera, gli «occhi infocati dei ranocchi e dei cipressi semoventi», l’incanto fiabesco del tappeto della camera istoriato di leocorni) e dall’altro sente irrompere domande estreme che potranno in seguito essere sedate ma non risolte: come quando un passero ferito – che il piccolo Savinio salverà e adotterà col nome di Leonida – rivela sotto il batuffolo di piume il «centro di un vuoto allucinante».
Scritto nei primi anni Venti ma apparso a stampa nel 1937, Tragedia dell’infanzia viene qui riproposto insieme alla sua seconda parte inedita e incompiuta – di recente affiorata tra le carte dell’autore –, dove si narra il mitologico viaggio svolto «sul dorso del Centauro» alla ricerca dell’Orsa, la misteriosa figura che si leva minacciosa e irresistibile sulla cresta del monte Pelio: un viaggio che segnerà la fine dell’infanzia e l’avvio di un nuovo destino.

Alberto Savinio – Sorte dell’Europa

cover sortDal 25 luglio 1943 alla fine del 1944 Savinio pubblicò una serie di articoli politici, che poi raccolse in volume l’anno dopo. Mai più ristampati da allora, questi testi, in cui si respira dappertutto l’euforia della liberazione dal fascismo, si rivelano oggi consolante esempio di come un grande scrittore, imprendibile per natura e dilettante per elezione, possa dare prova di una chiaroveggenza e lucidità politica che in ben rari casi troveremmo negli storici e uomini politici suoi contemporanei.
Saltando le alternative opprimenti dei blocchi e irridendo le varie borie nazionali, Savinio sembra già parlarci dell’«Europa di oggi», quell’Europa che si è faticosamente costruita negli ultimi decenni – e deve ancora costruirsi. Si direbbe, anzi, che la prospettiva di Savinio rimanga tuttora da recuperare: consapevole dello stato di inermità e cecità politica verso cui l’Europa delle nazioni si stava avviando, Savinio infatti concludeva questi scritti augurandosi addirittura che il movimento della resistenza partigiana trovasse il suo sbocco in un’Europa unita: «L’appello che chiude il manifesto del comunismo va aggiornato così: “Partigiani di tutta l’Europa, unitevi!”, intendendo per partigiani e partigianismo l’elemento dell’Europa che opera per impulso proprio, e non per ordine o ispirazione altrui». Se così non è stato, nessuno ha buone ragioni per rallegrarsene – e la prospettiva è sempre aperta.

Alberto Savinio – La casa ispirata

cover«Casa ispirata» vuol dire qui casa abitata da spiriti, da presenze invisibili e sinistre. Il luogo è situato a Parigi, in Rue Saint-Jacques, e il narratore vi arriva come pensionante, controfigura del giovane Savinio che scopre Parigi negli anni subito precedenti la prima guerra mondiale. Ed è tipico del genio di Savinio per il grottesco che la cosmopoli gli si sveli attraverso le molteplici nefandezze che sfilano davanti al protagonista fra le mura oppressive della «casa ispirata», mentre dietro di esse «un lavoro demoniaco cingeva con la sua rete sonora la vita dell’annosa abitazione». Qui si direbbe che abbia sede un culto esoterico del faisandé: i soprammobili, le maniere, le espressioni, i simboli, le divise che si sono affastellati nell’Ottocento piccoloborghese, ormai frollo e vicino a decomporsi, vengono golosamente apprezzati e carezzati dai padroni di casa. Il giovane pensionante li osserva con un certo sgomento e intanto registra, come un clinico, le apparizioni di una serie di personaggi aleggianti. Sono ogni volta ritratti che oscillano fra il macabro e una strepitosa comicità. Orrore e fascinazione non si disgiungono mai: tutto il romanzo è un’iniziazione al Grande Orrido parigino, pimentata da un riso liberatore. Parigi e i suoi abitanti, dai truculenti ospiti del narratore sino alle prostitute che transitano «col passo cerimonioso dei tacchini», sono una rivelazione definitiva di quella mostruosità quotidiana a cui Savinio dedicherà tanta e così felice parte della sua opera di pittore e di scrittore.

Alberto Savinio – La nostra anima

cover nosI due lunghi racconti che compongono questo volume – La nostra anima e Il signor Münster, fra i più felici e temerari del Savinio narratore – possono essere letti come un dittico sulle metamorfosi dell’anima, dove l’omaggio alla solennità del tema è dato proprio dalla delirante, oltraggiosa comicità del tono. Nel primo, fino a oggi quasi ignoto perché pubblicato nel 1944 in un’edizione numerata di trecento esemplari, Psiche appare al giovane Nivasio Dolcemare in un «museo di manichini di carne», a Salonicco. Accosciata sul fondo di una fetida stanza che sembra la gabbia di uno zoo, la «nostra anima» è una fanciulla nuda con testa di pellicano. La sua pelle è tutta incisa dalle frasi dei visitatori, come un rudere. E, quando Nivasio-Savinio ascolterà la sua voce, gli sarà e ci sarà rivelata una nuova, stupefacente e cruda versione del mito di Eros e Psiche: in questo caso la vicenda matrimoniale di una delle tre sorelle Falpalà, poi «nostra anima» esposta al pubblico quale archetipo animalesco. Dopo l’anima e l’amore, l’anima e la morte, ai cui misteriosi rapporti ci introduce Il signor Münster, scritto in quegli stessi anni di guerra che furono forse i più fecondi per Savinio. E qui troveremo, nella gabbia della sua casa, il signor Münster, questo «bambino prolungato» in cui è facile riconoscere uno stupendo autoritratto di Savinio, travolto in una vorticosa sequenza di metamorfosi: prima ritiene di essere morto, poi rompe gli specchi della casa, poi sente di trasformarsi in anima, poi ha grandiose visioni, poi si traveste da donna… Alla fine lo vedremo inseguire un’Aurora imbellettata, attempata ed equivoca, che sguscia da un portone di via del Babuino.

Alberto Savinio – Partita rimandata. Diario calabrese

cover“In questo libro troviamo ben visibile un Savinio intento a giocare la sua personale “partita rimandata” con il dio nascosto della letteratura, dove l’argomento, qualsiasi argomento esterno, si finge dei caratteri della metafisica; la Calabria è uno spettacolo esibito che singolarmente sfuma nell’astrazione e invece, grazie a una tecnica tanto più abile quanto più sembra naturale, viene resa visibile attraverso divagazioni, notazioni al margine, rapide illuminazioni, il vero e proprio rituale che guida lo scrittore verso una verità altra.” (Luciano Caruso, “il Quotidiano della Calabria”)

Tommaso Landolfi – Gogol’ a Roma

cover0001Basta leggere che i versi giovanili di Rimbaud sono minati da «negligenza e goffaggine»; che per penetrare la grandezza di Tolstoj bisogna procedere oltre «quella cocciutaggine nel voler salvare la propria anima e se ne avanza l’altrui»; che l’Innominabile di Beckett, se può sembrare eccezionale ai profani, rischia di far «sorridere familiarmente lo psichiatra»; bastano insomma queste poche sequenze di apparente irriverenza blasfema per capire che non siamo di fronte a un critico di routine o a un cauto professore. Ci troviamo, infatti, in quella particolare regione della geografia letteraria composta dagli articoli di Tommaso Landolfi: quella regione, cioè, in cui lo scrittore più elusivo e idiosincratico del nostro Novecento rivela l’altra faccia del proprio understatement – nella radicalità tipica di chi si ostina a credere, dietro la maschera dell’ironia, «che la letteratura sia una cosa seria».

Tommaso Landolfi – Diario perpetuo

ccover0001Ricordi che gettano sugli anni della giovinezza una luce di malinconica vanità o di inquietante presagio; fuggevoli incontri che rimangono impressi «come un che di struggente e d’improba­bile: di lunare»; corteggiamenti che altro non sono se non convulsioni d’infelicità e solitudine, matrimoni ridotti a «secchi schianti di disprezzo» e l’intollerabile vuoto lasciato dal disamore; fantasie che prendono improvvisamente corpo diffondendo un odore di morte, inspiegabili visioni notturne di un volto umano librato contro un angolo della stanza e la falla sempre in agguato nel tessuto delle apparenze; esistenze che si trascinano per mera forza di volontà o per assurda scommessa come a un tavolo di chemin de fer e il vano tentativo di contrastare il tempo che «reclama con ansia ed angoscia accadimenti»; l’impossibilità di trovare il chiarimento che cerchiamo e la volontà di morte «quale unica possibile dignità, in fondo a ciascun uomo». Sono i motivi fascinosi e allarmanti che subito ci afferrano allorché leggiamo gli elzeviri landolfiani apparsi sul «Corriere della Sera» fra il 1967 e il 1978, e che avrebbero dovuto comporre – se non fosse sopraggiunta la morte dello scrittore – un volume da af­fiancare a Un paniere di chiocciole (1968) e Del meno (1978). Beffardi pezzi di prosa, «innocenti raccontini», amari fram­menti di memoria ai quali è affidato l’assoluto disincanto di un Landolfi che ormai ritiene occorra «una tal quale dose di follia per raccontare una storia», ma non sa e non può rinunciare all’ultima sua risorsa: la scrittura nella sua chimica, provocatoria purezza.

Tommaso Landolfi – Il tradimento

coverCome il diario in versi Viola di morte (1972), anche Il tradimento, che ne è «grave e terribile seguito», sembra alimentato dal furore e dalla rabbia, quasi che scrivere colmasse in Landolfi – sono parole di Citati – «una tremenda voragine esistenziale, che torna a riaprirsi alla fine di ogni poesia, più angosciosa di prima. Ora i suoi versi ci rivelano l’immedia­to scatto dei nervi: ora tendono alla scansione nuda dell’epi­gram­­ma e dell’afori­sma. Non volano mai, non cantano mai, non corteggiano mai le grazie dell’imma­gine e della musica». E la ragione è chiara, lacerante: u­gual­mente allettato dal versante ‘selvoso’ della prosa e da quello ‘brullo’, ‘spoglio’ della poe­sia, Landol­fi si sente ormai, da entrambi, ugual­men­te respinto.