Infornata 8 agosto 2019 I

 

Gottfried Keller – Tutte le Novelle
Franz Kafka – Lettere a Felice
Blaise Cendrars – Moravagine
Thomas Bernhard – Eventi
Pierre Michon – Vite minuscole
Pierre Michon – Gli Undici
Pietro Citati – I frantumi del mondo
Knut Hamsun – Victoria
Saki – Racconti
Thomas Ligotti – La cospirazione contro la razza umana
Thomas Ligotti – Teatro grottesco
Thomas Ligotti – Nottuario
Thomas Ligotti – La straziante resurrezione di Victor Frankenstein

 

Thomas Bernhard – Correzione

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Pessimista in perenne dialogo con la morte, tetro nichilista, provocatore iconoclasta, malato di morbus austriacus: è così che spesso viene etichettato Bernhard. Ciò può in parte essere vero per la produzione che precede “Correzione”; ma a partire da questo romanzo tali semplificazioni sono contestabili, sia perché in seguito si farà sempre più esplicita la vis comica sia perché al solido muro della negatività verranno contrapposti un magnete di forza vitale e pulsante, uno o più nuclei di esperienze positive. In “Correzione” uno di questi nuclei è certamente la limpida descrizione del percorso che Roithamer, l’imbalsamatore e il narratore fanno per andare a scuola: “per noi il sentiero della scuola, come il sentiero della vita, è sempre stato solo un sentiero di dolore, ma nello stesso tempo un sentiero di tutte le scoperte possibili e di una felicità sublime”. Vi è poi la rosa di carta che il narratore trova nel cassetto superiore del comò della soffitta, che gli rammenta i momenti gioiosi trascorsi insieme durante una sagra di paese nella quale il giovane Roithamer vinse al tiro a segno un mazzo di 24 rose di carta gialla – senza mai sbagliare un colpo: proprio lui, che contro la tradizione di famiglia detestava la caccia. Le regalò, tutte meno una, “a una ragazza sconosciuta che nel passargli accanto gli aveva ricordato sua sorella”. La rosa custodita è l’emblema di una possibile felicità, di una chance che, sebbene rifiutata, era a portata di mano.

Thomas Bernhard – La fornace

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La fornace (Das Kalkwerk), il romanzo scritto da Thomas Bernhard nel 1970, ha l’avvio del tipico «giallo di Natale», o di uno di quei romanzi foschi piu consueti alla letteratura anglosassone: nella notte della vigilia di Natale un’anziana signora paralitica viene trovata uccisa da un colpo di carabina. Subito dopo, però, la polizia scopre il marito Konrad tutto infreddolito in una lurida fossa, ed è lui il reo, confesso. Così il romanzo si avvia immediatamente verso la narrazione degli antecedenti e dei motivi remoti ed estesi nel tempo del gesto di Konrad. Konrad stesso, protagonista in prima e in terza persona, voce monologante-dialogante con i filtri abituali della narrativa di Bernhard, espone la storia del proprio ménage coniugale in quella vecchia fornace solo vagamente riattata e da lui stesso prescelta, dopo alti e bassi sempre piu sfortunati, per poter scrivere l’opera della sua vita, un saggio sull’udito, «il più filosofico dei nostri sensi», che da tempo ha «bell’e pronto nella testa» ma che finirà per non scrivere mai, come mai scriverà il suo libro su Mendelssohn il protagonista dell’altro romanzo di Bernhard, Beton. L’universo concentrazionario dei due coniugi, costretti dall’imbarazzo fisico e psichico a convivere con le loro inutili e logoranti manie in quel monastero-carcere dalle enormi stanze vuote, con soffitte piene di cianfrusaglie e cantine cavernose ove si conserva il sidro caro alla Konrad, si dipana nella confessione dell’uomo con le minuzie di una sequela di giorni fatta di avvenimenti pesanti e impercettibili, di ripicche e torture reciproche, di ossessioni sadiche e soffocanti. Il discorso si snoda nei modi e toni della quotidianità e dei rovelli rancorosi, compressi, in un ordine narrativo sparso che risponde solo a ragioni interiori. Il fraseggiare protratto, le clausole ripetitive, la semplicità dei vocaboli, i ritorni, le riprese, pur seducono irresistibilmente la lettura, spenti come sono ma ricchi d’improvvisi squarci lirici o comici, cupamente tragici nella loro normalità o accesi nella loro totale follia. Questo mondo impoetico fino all’ottusità muove pure da un’ispirazione fortissima, delineando con un’incontenibile vena musicale una metafora dei temi esistenziali, un’interpretazione drammatica e ironica dell’opacità del nostro tempo.

Thomas Bernhard – Amras

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Segregati in una torre – al tempo stesso eremo mistico e simbolo della loro tradizione familiare – due fratelli vivono un tempo sospeso e dilazionato, dopo il suicidio dei genitori, cercando un impossibile approccio all’Assoluto. In questo bruciante racconto della maturità, Thomas Bernhard ha condensato con sapienza narrativa i motivi e i temi cardine del suo intero universo poetico. Quei suoni che provengono dalla strada, le figure ancora intraviste dalle tende tirate nell’incombente buio della sera, i libri di poesia ancora compulsati, i noti oggetti e volti quotidiani, percepiti in un istante che si avverte come estremo: tutto questo è evocato con un amore segreto e umanissimo, che restituisce alla vita tutta la sua aura sacrale.

Thomas Bernhard – Cemento

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Per scrivere il suo studio su Mendelssohn Bartholdy, il narratore, Rudolf, ha bisogno di essere a casa propria, in campagna. Ha dunque atteso con impazienza la partenza della sorella, venuta a trascorrere qualche giorno con lui. Ma non era stato forse lui a invitarla, proprio perché non riusciva a mettersi al lavoro? Così, dopo la sua partenza, Rudolf non riesce ugualmente a scrivere. Avverte dovunque la presenza invadente di lei, sente il suo discorso protettivo, ironico, provocatorio… Rudolf penserà di sfuggirle intraprendendo un viaggio. Ma il suo soggiorno a Palma non farà che rianimare in lui il ricordo di un dramma di cui è stato testimone anni prima: un suicidio, un fatto di cronaca di desolante banalità.

Thomas Bernhard – A colpi d’ascia. Una irritazione

A colpi d'ascia

Siamo a Vienna, negli Anni Ottanta. La sera c’è stata una rappresentazione dell’”Anitra selvatica” di Ibsen al Burgtheater. Segue una «cena artistica» a casa della coppia Auersberger, che il narratore non vede da vent’anni: lei cantante, lui «compositore nella scia di Webern», entrambi «signorilmente consunti». Tutto il romanzo è il resoconto di ciò che il narratore vede e ascolta, seduto nella sua poltrona in anticamera con una coppa di champagne in mano, e poi, seduto a tavola, durante questa serata: implacabile, ferocemente comico, inesauribile nelle variazioni e nei ritorni sul tema, Bernhard devasta con l’ascia della sua prosa il mondo della pretenziosità e dell’inconsistenza intellettuale, che non corrisponde solo a una certa scena viennese ma a ciò che circonda noi tutti. La «cena artistica» diventa così il condensato di tutte le «atrocità» da cui il narratore è riuscito a «mettersi in salvo» durante la sua vita, come se quell’incessante chiacchiericcio tentasse di impaniarlo di nuovo, ma con l’unico risultato di provocare un furioso desiderio di fuga, una corsa cieca, che finisce per coincidere con la scrittura martellante di questo libro, che trafigge l’atrocità con la forma. E questa appunto è stata sempre l’arte di Bernhard. Pubblicato nel 1984, “A colpi d’ascia” suscitò enorme scandalo perché alcuni personaggi viennesi credettero di riconoscersi in queste pagine. Il libro fu dunque proibito in Austria, ma ebbe subito un grande successo anche di pubblico.

Thomas Bernhard – Teatro I. Una festa per Boris. La forza dell’abitudine. Il riformatore del mondo

Teatro I

Thomas Bernhard è uno dei giganti della letteratura del Novecento. È innegabile che con i suoi romanzi ha saputo innovare la scrittura narrativa come pochi altri scrittori, ma è forse nel teatro, a cui ha dedicato la maggior parte della sua attività, che lo scrittore austriaco ha trovato la cifra inconfondibile della sua identità letteraria. Riunire i testi teatrali di Bernhard, impresa avviata da Ubulibri nel 1982, è stata un’opera tempestiva e lungimirante che merita di essere ripresa a distanza di anni e completata. Questo primo volume riunisce tre testi dei primi anni Settanta: dall’esordio un po’ beckettiano di Una festa per Boris (1970), con la sua tragicomica sfilata di personaggi senza gambe, a La forza dell’abitudine (1974), tagliente e grottesca parabola della ricerca di perfezione artistica ambientata in un emblematico circo, fino a Il riformatore del mondo (1975), autorappresentazione di un vecchio delirante che si atteggia a coscienza del pianeta degradato e a nuovo ordinatore del caos, uno dei capolavori assoluti di Bernhard, molte volte rappresentato anche in Italia.

Thomas Bernhard – Teatro II. La brigata dei cacciatori. Minetti. Alla meta

Teatro II

Come per la narrativa, anche per il teatro Thomas Bernhard resta fedele a un’idea dell’arte come luogo dell’autenticità. Nonostante tutto. Nonostante cioè la perversità e la falsità di cui è capace il linguaggio. Ma al linguaggio Bernhard non dà tregua. Non lo distrugge né lo guarda troppo da vicino, ma lo complica e lo ribalta, lo prova e lo riprova come se nelle pieghe piú segrete, negli intrichi semantici e sintattici spinti fino al grottesco, potesse aprirsi uno spiraglio che faccia intravvedere un po’ piú in là nell’orizzonte di tenebra che comunque circonda ed esalta la vita. Dal saggio introduttivo di Eugenio Bernardi

Thomas Bernhard – Teatro III. L’apparenza inganna. Ritter, Dene, Voss. Semplicemente complicato.

Teatro III

In queste tre pièce Bernhard concentra la sua attenzione su quella figura di interprete-esecutore-attore che è al centro di tutta l’impalcatura della sua opera e di cui egli ora, riducendo al massimo i termini della rappresentazione, rimette in gioco il senso. (…) Contraddizione e spettacolo come termini interscambiabili. Soprattutto L’apparenza inganna e Semplicemente complicato mimano le contraddizioni di cui è fatta non solo l’esistenza dell’attore, ma quella di chiunque tenti di arrivare a una propria rappresentazione del mondo. dal saggio introduttivo di Eugenio Bernardi

Thomas Bernhard – L’origine. Un’accenno

cover«All’interno del collegio non avevo potuto constatare alcun mutamento di rilievo, se non il fatto che la stanza cosiddetta di soggiorno nella quale eravamo stati educati al nazionalsocialismo era adesso diventata una cappella, e al posto del podio su cui prima della fine della guerra era salito Grünkranz per insegnarci la dottrina della Grande Germania c’era adesso un altare, e alla parete dove prima c’era il ritratto di Hitler pendeva adesso una grande croce, e al posto del pianoforte che, suonato da Grünkranz, aveva accompagnato i nostri inni nazionalsocialisti come Die Fahne hoch! oppure Es zittern die morschen Knochen c’era adesso un harmonium. L’intero ambiente non era stato nemmeno ritinteggiato, evidentemente mancavano i soldi, sicché nel punto dove adesso era appesa la croce si poteva ancora scorgere la macchia, bianchissima e vistosa sulla superficie grigia della parete, dove per anni era stato appeso il ritratto di Hitler».
In questo primo volume della sua autobiografia, Bernhard ha voluto subito raccontare un periodo della sua vita a cui risale il manifestarsi di una lesione insanabile in lui: i mesi passati durante la guerra nel Convitto nazionalsocialista di Salisburgo, fra macerie e angherie, e i mesi passati nello stesso collegio, ora chiamato Johanneum, e retto da sacerdoti cattolici, sempre fra angherie, all’inizio di una ottusa pace. Nell’intima compenetrazione salisburghese fra nazismo e cattolicità, nella vocazione della città al suicidio (una delle più alte percentuali europee) e all’Arte Universale, nella scuola come offesa permanente, nella capacità locale di cancellare la memoria e sovrapporre una nobile decorazione a un fondo putrido, Bernhard riconosce una costellazione atroce e beffarda alla quale da sempre ha tentato di sottrarsi: e qui la presenta e la ripercorre in pagine ossessive, implacate. Il piccolo Thomas Bernhard, al Convitto nazionalsocialista, suonava il violino nella «stanza delle scarpe», «piena zeppa di centinaia di scarpe dei suoi compagni intrise di sudore, accatastate su scaffali di legno marcio». Suonare il violino era per lui una preparazione al suicidio – e un modo di sfuggire al suicidio, concentrandosi nell’atto del suonare. Anni dopo sarà lo scrivere stesso, per Bernhard, una metodica esplorazione dell’orrore – e insieme l’unica mossa efficace per sfuggirgli.