Nel secondo pannello della sua trilogia, Peake raggiunge il nucleo più oscuro di una narrazione che molti hanno paragonato, per vastità di respiro e potenza visionaria, al Signore degli anelli. In realtà egli va molto oltre, riuscendo a saldare in un travolgente flusso romanzesco il male della storia e il Male metafisico, e a far dono al lettore di una scrittura che fonde lo smalto imprevedibile dei colori alla precisione iperrealistica dei dettagli – quasi la ‘trascrittura’ dell’arte di un pittore fiammingo gettato dal caso nel cuore di un altro mondo, che non abbandonerà più la nostra memoria.
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Mervyn Peake – Via da Gormenghast
Angus Wilson – Prima che sia tardi
Prima che sia tardi narra la vicenda dell’archeologo Gerald Middleton, che al culmine della fama comincia ad essere tormentato da un atroce sospetto: il prestigio di cui gode potrebbe essere il frutto di un raggiro. Da giovane, infatti, aveva assistito a un’importante scoperta, fatta dal suo maestro. Alcuni indizi, però, lasciano pensare che si sia trattato di un imbroglio, di un falso ordito dal suo maestro per sconfiggere gli avversari. Con coraggio, Middleton deciderà di compiere una dolorosa verifica.
Nella vicenda di Gerald Middleton, Wilson adombra la condizione morale dell’uomo del nostro secolo: il passato – i padri, la tradizione – non ha più la forza e l’autorità per diventare guida per il presente: così, all’uomo d’oggi non rimane che l’arma del sospetto. Un’arma che fa male anche a chi la usa.
consiglio a cura di Athanasius
William Shakespeare – Amleto
Dalle scene alla pagina scritta. Per Cesare Garboli «recitare Amleto è impossibile. Luogo di tutti i teatri, principio e fine di ogni finzione». Amleto è un’opera che sembra contenere l’origine e l’essenza del teatro, il protagonista è un personaggio difficile da interpretare: «non basta essere attori. Bisogna essere Amleto». E tradurlo? Carlo Cecchi, quando decise di mettere in scena Amleto, non trovò una traduzione degna dell’originale e decise di commissionare a Cesare Garboli questa traduzione. Negli anni, insieme, ebbero modo di limarla durante le tante messe in scena dell’opera. Una traduzione agile e naturalissima, che varia con abilità i ritmi di recitazione. Nella quale affiora, come voleva Garboli, che Amleto «non può affrontare da eroe il suo destino e dirigerlo. Può solo subirlo».
consiglio offerto da Flextime e Lied
John Fowles – Daniel Martin
Alle soglie dei cinquant’anni, uno scrittore inglese che vive negli Stati Uniti è richiamato di colpo alle proprie origini, al proprio passato, al senso della propria esistenza da un amico morente che lo vuole accanto a sé. Si tratta dello stesso uomo che, molti anni prima, ha sposato la sorella di sua moglie; e in Daniel, il protagonista del romanzo, si riaccende di colpo un dubbio rimasto sepolto per tanto tempo nel suo inconscio: il dubbio di aver sposato, allora, fra le due sorelle, quella sbagliata… A partire da questa scardinante intuizione, Daniel rivive secondo un nuovo ordine, in un incalzante susseguirsi di flashes back, tutte le scelte e gli avvenimenti della sua vita. La narrazione, che alterna la prima e la terza persona, si trasforma così in una strenua ricerca dell’identità personale del protagonista e, insieme, in un vasto ritratto-autoritratto della sua generazione, di cui mette sottilmente e duramente a confronto idee, consuetudini, pregiudizi con quelli delle generazioni successive. Alla fine, il destino – o, meglio, un destino – si compie; ma a contare, non sarà tanto lo scioglimento della trama e del dramma, quanto il processo attraverso il quale autore e personaggio vi giungono, e vi conducono il lettore. Romanzo ambizioso, Daniel Martin è anche il libro nel quale John Fowles – che il pubblico italiano già conosce ed apprezza per opere gradevoli e raffinate come Il collezionista e La donna del tenente francese – affronta in modo più esplicito il problema della creazione letteraria, intesa (sono parole di Masolino d’Amico, attento e brillante postfatore) come « vittoriosa imposizione di un ordine al caos che ci circonda ».
Consiglio offerto da Athanasius.
Patrick Leigh Fermor – Tempo di regali. A piedi fino a Costantinopoli: da Hoek Van Holland al Medio Danubio
Munito solo di uno zaino da alpinista, un vecchio cappotto militare, scarponi chiodati, l’Oxford Book of English Verse e un passaporto nuovo di zecca che gli attribuisce la professione di studente (anziché, come avrebbe auspicato, quella di vagabondo), nel dicembre del 1933 Patrick Leigh Fermor abbandona Londra e una carriera scolastica sciagurata e ribalda. Ha appena diciotto anni, vaghe ambizioni letterarie, ma un progetto nitido e grandioso: attraversare l’Europa a piedi come un palmiere o un cavaliere errante e raggiungere Costantinopoli – la «Bisanzio verde drago» di Robert Byron, «ossessionata dal serpente e tormentata dal gong». Quando vi arriva, il 1° gennaio 1935, è ormai un altro: non solo si è lasciato per sempre alle spalle disastri e misfatti, ma ha sviluppato una rara forma di nomadismo – viaggiare simultaneamente nello spazio e nel tempo – e l’arte, ancora più rara, di trasmetterlo agli altri. Che contempli lo splendore barocco dello Schloss Bruchsal o le nodose mani dei contadini fra cipolle tagliate, caraffe sbeccate e pane integrale; che dorma in un fienile steso come un crociato sulla tomba o nel «capanno da caccia» del leggendario barone Pips Schey a Kövecses; che percorra il Reno su una colonna di chiatte che trasportano cemento o attraversi Vienna offrendosi come ritrattista a domicilio; che sperimenti il Katzenjammer, i postumi di una sbornia, a Monaco o elabori la «formula del lanzichenecco» per spiegare l’architettura delle città tedesche prebarocche; tutto ci appare il dettaglio di un fantasmagorico affresco, tutto sembra ricomporsi in un gigantesco puzzle dove risorge, come un’emanazione di incredibile e accattivante splendore, il passato dell’Europa. E insieme scopriremo qui il modello ancora fragrante di quel modo di viaggiare (e di vivere) che sarà un giorno identificato con la fisionomia di un giovane amico di Leight Fermor: Bruce Chatwin.
Patrick Leigh Fermor – Fra i boschi e l’acqua. A piedi fino a Costantinopoli: dal Medio Danubio alle Porte di Ferro
Nel 1934 Patrick Leigh Fermor ha diciannove anni, e già da alcuni mesi si è lasciato alle spalle l’Inghilterra e un curriculum scolastico scellerato con il fermo proposito di raggiungere a piedi Costantinopoli, vivendo «come un pellegrino o un palmiere, un chierico vagante», dormendo nei fossi e nei pagliai e familiarizzando solo con i suoi simili. Fra i boschi e l’acqua è il racconto della seconda parte di quel viaggio, e prende avvio dal punto esatto in cui era terminato Tempo di regali: il ponte di Mária Valéria, al confine tra Cecoslovacchia e Ungheria, che di lì a dieci anni sarà minato dai tedeschi in ritirata e mai più ricostruito fino al nuovo millennio. Ma i mille chilometri successivi – dalla Grande Pianura ungherese, lungo il corso del Tibisco e del Maros e attraverso la Transilvania, fino alle Porte di Ferro, dove collidono i Carpazi e i Balcani – aprono una parentesi idilliaca e precaria nel secolo più violento della storia: il ritmo del viaggio rallenta, il passo si fa più pigro, la percezione del tempo svanisce, come in «un felice e gradito incantesimo». Con sapienza lirica, vigore muscolare e superbo talento per la digressione, Leigh Fermor racconta incontri con cervi e boscaioli, ritrae manieri isolati e villaggi di montagna, fienagioni e favolose biblioteche, rievoca notti passate sotto le stelle e amori estivi, riferisce leggende di spiriti, fate e lupi mannari e conversazioni con un’aristocrazia votata all’estinzione. Immagini sparse che compongono un quadro dalla grazia impareggiabile e suscitano nel lettore una sorta di incantamento: segno distintivo, questo, dell’appartenenza di Leigh Fermor alla medesima dinastia di Robert Byron e Bruce Chatwin.
Rudyard Kipling – «Loro»
Frutto della tarda fioritura kiplinghiana – fioritura come offuscata e relegata in secondo piano dall’eccesso di notorietà procurata allo scrittore dalle sue opere iniziali –, questi racconti non mancheranno di sorprendere e sconcertare moltissimi lettori: giocati su una mostruosa tastiera di riferimenti, bagnati di una pervasiva malinconia, spaziano dal Sudafrica che non ha ancora conosciuto la guerra boera all’Antiochia dei primi martiri cristiani, dal Medioevo monastico alle trincee della Grande Guerra – e ognuno di essi è un piccolo romanzo. Qui si curano case malate: ad altre si confessano desideri da esaudire; qui un Dio deve pagare «a caro prezzo» la sua schiava, prima di morire sotto gli occhi di un attonito san Paolo, e l’anticamera del regno dei morti è un vagone abbandonato su un binario in disuso in fondo al continente nero. E noi, sfiorati da una turba di fantasmi e revenants, di umbratili presenze puerili trattate con selvaggia verecondia, comprendiamo come mai Kipling sia stato uno dei grandi ispiratori di Borges. Con la sua «seconda vista», l’ultimo, estremo Kipling, sempiterno senex-puer sprofondato nel cuore dell’enigma, ci conduce un po’ più vicino al cuore della creazione.
Rudyard Kipling – Storie proprio così
Nel presentare ai suoi lettori “Storie proprio così”, scritte in origine per far addormentare la sua primogenita, Kipling ricordava come non gli fosse permesso, allora, alterarne neanche una parola: andavano raccontate “proprio così”, altrimenti la bambina “sarebbe saltata su a ripristinare la frase mancante”. In seguito le avrebbe sperimentate con gli altri figli e i loro piccoli amici, studiandone le reazioni, dando ascolto a eventuali loro appunti, rifinendo ogni cadenza e intonazione, tanto che quelle storie hanno finito per diventare vere e proprie formule incantatorie. Così temi didascalici come geografia e preistoria, flora e fauna, nascita della scrittura, “evoluzione della specie” e altro materiale ponderoso, mirabilmente parodiati e reinventati, vengono assunti di diritto nell’empireo fiabesco. E verremo a sapere “perché” il Cammello ha la gobba o il Leopardo le macchie; scopriremo le origini degli Armadilli e come sia stato composto il primo Alfabeto; incontreremo il Gatto che se ne va per i fatti suoi e la Farfalla che batte i piedi – in un tripudio di trovate sempre più fantastiche, accompagnate da rime bislacche e disegni ancor più strani. Giacché qui Kipling ha voluto mostrare, per una volta, un altro suo inedito talento, corredando i testi di disegni in tutti i sensi originali, arabeschi di gusto fin de siècle – con un tocco forse dell’amico Beardsley – che arricchiscono le vie della lettura.
David H. Lawrence – Figli e amanti
Paolo, legato profondamente alla madre, non riesce ad avere un rapporto sereno con nessuna donna, né con Miram, innamorata e mite, né con Clara, una divorziata che decide di tornare dal marito quando capisce che il rapporto con Paolo non può essere appagante. Quando muore sua madre, Paolo, straziato dal dolore e in disperata solitudine, capisce però che forse solo da quel momento potrà cominciare a sperare di saper costruire un vero rapporto affettivo con una donna.