Apriamo questo libro e ci troviamo in un mondo parallelo al nostro. È Gormenghast, un immane castello, che nessuno dei suoi abitatori ha percorso in tutti i suoi anfratti. Un tempo, doveva essere pieno di tinte squillanti: ora è un intreccio di crepe, e le tinte sfumano fra grigio, verde lichene, rosa antico e argento. Vi incontriamo esseri disparati: un nobile melanconico e saturnino, settantaseiesimo conte di Gormenghast, che è il reggitore del luogo; sua moglie, avvolta in una nube di gatti bianchi; la figlia, selvatica e sognante fra giocattoli vecchi, libri e pezze di stoffa; dignitari di cartapecora, dalle gambe di ragno, custodi di un ordine ormai inaridito; orripilanti figuri che sovraintendono alle cucine; giovani acrimoniosi, che covano la rivolta. Ma c’è qualcosa che unisce questi personaggi: il loro corpo e la loro psiche sono una concrezione del castello – così come il castello è una concrezione del loro essere. Nessuna vita è per loro concepibile al di fuori di quei corridoi di pietra, di quei saloni, di quelle torri, di quei solai. La natura non esiste, se non come riflesso del castello, dove la polvere è polline: perché Gormenghast è tutto. La nascita di un erede maschio, Tito di Gormenghast, «rampollo della stirpe delle pietre, acqua del fiume senza fine», porterà una minaccia di cambiamento, per il solo fatto di essere qualcosa di nuovo. E qui ha inizio la trascinante saga narrata da Peake, un’impresa grandiosa della letteratura fantastica – e insieme un vasto disegno allegorico che traspare dietro l’esuberanza delle immagini.
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Stefano D’Arrigo – Cima delle nobildonne
Vincenzo Rabito – Terra matta
«Se all’uomo in questa vita non ci incontro aventure, non ave niente darracontare». E Vincenzo Rabito, da raccontare, aveva una vita intera. Un’esistenza guerreggiata. Passata attraverso le trincee della Prima guerra mondiale, le bombe della Seconda, il «rofianiccio» del Ventennio, il flagello di una suocera terribile, la fame atavica del Sud contadino, l’improvviso benessere della «bella ebica» del boom economico, e infine una privatissima ed estrema battaglia per consegnare ai posteri quest’autobiografia. Vincenzo Rabito, bracciante siciliano, si è chiuso a chiave nella sua stanza e ogni giorno, dal 1968 al 1975, senza dare spiegazioni a nessuno, ingaggiando una lotta contro il proprio semi-analfabetismo, ha digitato su una vecchia Olivetti la sua autobiografia. Ha scritto, una dopo l’altra, 1027 pagine a interlinea zero, senza lasciare un centimetro di margine superiore né inferiore né laterale, nel tentativo di raccontare tutta la sua «maletrata e molto travagliata e molto desprezata vita».
Ottiero Ottieri – L’irrealtà quotidiana
A quattro decenni dalla sua pubblicazione, scrive Giovanni Raboni nell’introduzione, L’irrealtà quotidiana non ha perso nulla della sua dirompente unicità, della sua strepitosa capacità di sconcertare il lettore. «Di che cosa esattamente si tratti fu questione non poco dibattuta nel corso di quel 1966 che vide, oltre alla comparsa del libro, anche il suo annunciato e tuttavia, alla resa dei conti, non incontrastato trionfo al Premio Viareggio (…). Alla fine si fece strada la formula del ‘saggio romanzato’: definizione tutto sommato accettabile e, almeno in parte, tuttora utile a patto di rendersi conto che dopo i romanzi per così dire tradizionali e persino vagamente neorealistici pubblicati da Ottieri prima d’allora L’irrealtà quotidiana ha segnato per lui una svolta decisiva, un autentico punto di non ritorno. Da quel momento in poi, voglio dire, nessuno dei suoi libri (…) sarebbe più stato classificabile dentro un unico genere.» Sono parole che segnalano il carattere davvero cruciale di una delle opere più controverse e significative di Ottiero Ottieri, un libro che fu definito da Andrea Zanzotto «violento, sacrificale, intimativo». L’esemplarità dell’Irrealtà quotidiana risiede proprio nella qualità che ha contraddistinto anche la produzione successiva di Ottieri: quel coraggio, ricorda ancora Raboni, «con cui entrambi, opera e autore, assumono su di sé, somatizzano, fisicizzano, trasformano in propria carne e proprio sangue» il dibattito e il confronto di idee che per altri rimangono su un piano più astratto. E oggi, a quasi quarant’anni dalla sua prima apparizione, L’irrealtà quotidiana mantiene intatta tutta la sua forza ideologica, la sua piagata corporeità, la sua dolente unicità.
Ottiero Ottieri – Poemetti. Vi amo. L’infermiera di Pisa. Il palazzo e il pazzo
Per la prima volta riuniti in un unico volume, i tre poemetti autobiografici di Ottieri mostrano la continuità che li lega e appaiono ancora piú potenti. Sono tre monologhi torrenziali, un’unica confessione estrosa e tragicomica in bilico tra la sanità e la malattia, il privato e il politico, la follia e il desiderio sfrenato. L’ironia è la chiave di questa partitura in tre movimenti. L’autoironia e l’autodenigrazione sembrano uno sberleffo sull’orlo del baratro, uno sberleffo che, attraverso il caso individuale, colpisce il mondo intero. La malinconia e la disperazione sono come nascoste dalla maschera teatrale, dai giochi di parole, dalle rime impreviste, ma costituiscono la struttura profonda dei poemetti, il luogo dove immancabilmente vanno a finire le ossessioni dell’autore e il mondo esterno, risucchiato anch’esso in una spirale senza fine.
Ottiero Ottieri – Donnarumma all’assalto
Italia del Sud, fine anni Cinquanta. Una grande azienda settentrionale ha deciso di impiantare una nuova fabbrica nel cuore del Mezzogiorno. Ora deve selezionare il personale adatto, e per questo ha incaricato uno psicologo che sottoponga i candidati a una «valutazione psicotecnica». Nel suo diario, lo psicologo registra l’esito del suo lavoro, che si fa via via più coinvolto e commosso, fino a trasformarsi in una vera e propria partecipazione al dramma dei disperati che si aggrappano al miraggio del posto di lavoro per liberare se stessi e le loro famiglie dalla miseria. E lui che, invece, per dovere professionale, deve decidere il destino di ognuno di loro.
Lucio Mastronardi – Il maestro di Vigevano. Il calzolaio di Vigevano. Il meridionale di Vigevano
«L’universo di Mastronardi ha un nome, dichiarato fin dall’inizio dai titoli in copertina: Vigevano. Non so quanti e quali nessi si possono trovare tra questa Vigevano romanzesca e la Vigevano reale: ma so che come immagine dell’Italia, di trent’anni di storia della società italiana, la Vigevano mastronardiana funziona egregiamente. […] Che un risultato di tanta forza sia stato ottenuto da un’esistenza in fragile equilibrio col mondo come quella di Lucio Mastronardi, dalla sua sensibilità di scorticato vivo, dà a quest’opera un carattere ancor piú raro, perché pagine cosí sapienti nel costruire e nel giudicare le storie umane sono state come strappate dal gorgo di sofferenza che Lucio si portò dentro per tutta la vita». Italo Calvino
Alberto Savinio – Nuova enciclopedia
«Sono così scontento delle enciclopedie, che mi sono fatto questa enciclopedia mia propria e per mio uso personale. Arturo Schopenhauer era così scontento delle storie della filosofia, che si fece una storia della filosofia sua propria e per suo uso personale». Con questa lapidaria dichiarazione Alberto Savinio ci introduce a questa sua Nuova Enciclopedia, a cui lavorò negli anni Quaranta e che solo ora vede la luce. Fin dalle prime pagine, dove spiccano gloriosamente le voci «Abat-jour» e «Abbiategrasso», si ha l’impressione di trovarsi di fronte all’opera che, proprio per l’irriverente paradossalità della sua forma, più di ogni altra è adatta a rappresentare la ‘totalità Savinio’, questo intricato coacervo di talenti che nascondeva uno dei rari grandi scrittori italiani di questo secolo. E se ormai tanti, in Italia e fuori d’Italia, concordano nel riconoscere il magistero del pittore e del narratore visionario, non altrettanta attenzione si è fatta finora a un lato di Savinio che si manifesta allo stato puro in queste pagine: la sua strepitosa ‘intelligenza’, l’acutezza di un pensiero senza timori, capace di passare agilmente dal ridicolo quotidiano al ridicolo universale, dalla metafisica ai segreti dello stile, dai lapsus alla cronaca nera, da Apollo a Joséphine Baker, dal commento alle frasi del portiere a un frammento dei Presocratici.
Alberto Savinio – Narrate, uomini, la vostra storia
Questo libro, il più celebre di Savinio e per molti il suo capolavoro, fu pubblicato per la prima volta nel 1942, in quegli anni della guerra che segnarono per lo scrittore l’apice dell’intensità creativa. Il successo fu immediato. Ma il suo vero pubblico questo libro dovrebbe raggiungerlo oggi, per la sua impressionante concordanza con la sensibilità di anni come i nostri, che si trovano – senza loro merito – ad aver bruciato ogni essenza della Storia. Mai tanto congeniale sarà stato per noi ascoltare Savinio come in questo «invito alla confessione», invito «tutto dolcezza e perfidia», che evoca i ritratti fantomatici di alcuni esseri quanto mai diversi – da Isadora Duncan al torero Bienvenida, da Nostradamus a Jules Verne –, sospinti verso di noi dalla risacca del tempo.
Alberto Savinio – Ascolto il tuo cuore, città
In margine a questo libro, Savinio avverte il lettore che si tratta di «un libro discorsivo: un entretenimiento». E subito aggiunge che questa forma di «lungo e tranquillo conversare» è per lui la più ambiziosa, in quanto sottintende tutta la civiltà: qui «la fase cosmogonica della poesia – e del pensiero – è superata, sottintesa, e “taciuta”; per quel pudore che è regola rigorosa sul piano di questa superiore civiltà. Ormai non si opera più, non si cede più alla bassa ambizione di mettere le mani in pasta. Si rievoca soltanto. Si passa tranquilli, indifferenti, fra i ricordi che il dramma ha lasciato dietro di sé. E solo c’è voce per un discorso calmo. Poi, più oltre, più su, luogo non ci sarà nemmeno per un discorso; ma solo per il silenzio».
Una volta decifrato tale impeccabile cartiglio, che illustra non solo questo libro ma tutta l’opera di Savinio, siamo pronti a seguire questo «lungo conversare» che – ci accorgeremo presto – è anche un passeggiare: passeggiare per Milano, scoprendo in questa città (che Savinio si azzarda a definire «dotta e meditativa: la più romantica delle città italiane») una selva di associazioni, di figure, di fantasmi, di fatti. Per lo scrittore, Milano è una robusta, onesta stoffa su cui ricamare divagazioni. E la divagazione è per lui anche il pretesto per contrabbandare i frammenti di una sottile confessione autobiografica. Ovunque si spinga in questo suo urbano girovagare, Savinio è assistito dalla sua amica più fedele, l’ironia, intesa come «maniera sottile d’insinuarsi nel segreto delle cose», virtù tanto più necessaria a Milano, che si presenta come «città tutta pietra in apparenza e dura», mentre è «morbida di giardini “interni”». E, a fianco di Savinio, quale perenne compagno di conversazione riconosciamo un’ombra, il milanese Henri Beyle. Da lui, solo da lui, Savinio ha derivato un certo sguardo amoroso che si posa sui dettagli della città – e persino un gesto che ormai è una sfida dell’immaginazione, respirare «a pieni polmoni l’odore della sua cara città, ch’è l’odore di legno bruciato esalato dai camini e custodito dalla nebbia».