Il dottor Prokop possiede la formula segreta di un esplosivo senza precedenti… ma è un uomo infelice, che cerca realizzazione e amore e finisce per farsi rubare la formula, mettendo a repentaglio il mondo intero. Romanzo distopico e fantascientifico in anticipo sulle mode letterarie, in “Krakatit” Capek ha previsto le possibilità della fisica atomica e il pericolo della guerra nucleare già negli anni Venti, opponendo a uno scenario catastrofico la tradizione umanistica ceca.
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Con il romanzo, com’è noto, i surrealisti non ebbero fortuna. Sicché, alla distanza, i più rapinosi potrebbero rivelarsi proprio quei romanzi per immagini che Max Ernst elaborò fra il 1929 e il 1934 ritagliando illustrazioni di feuilleton dell’Ottocento e dei primi del Novecento, e assemblandole poi in collage a cui aggiungeva didascalie di sua mano, destinate a essere, scrive Giuseppe Montesano, «segnali devianti e pervertimenti del senso comune». Sono immagini folte di fanciulle sensuali e innocenti insidiate da tenebrosi allievi di Sade, e di messieurs in abito nero e ghette che nascondono manie vergognose, mentre sullo sfondo freme «la città piena di sogni» di Baudelaire e ancora «lo spettro adesca il passante in pieno giorno». Un allestimento onirico ereditato dai romanzi d’appendice, dunque, ma che Ernst ha saputo trasformare, non senza un tocco di germanico unheimlich, in vessillo della sommossa perenne del desiderio. Si installa così in queste pagine perturbanti il più cupo e luminoso erotismo mai evocato dai surrealisti, dove un seno è un giocattolo e una capigliatura un sesso palpitante, dove i fantasmi del piacere hanno scollature abissali e le ossessioni si mutano in animali da preda, dove un lenzuolo su un corpo nudo è una cascata letterale e i rivoltosi dell’amore volano dalle finestre degli abbaini.
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In questa raccolta, che copre l’intero arco dell’opera di Auden, il lettore non solo troverà tutte le sue poesie più celebri – riproposte in nuove o rinnovate traduzioni di Massimo Bocchiola e Ottavio Fatica -, ma scoprirà un giacimento di tesori, quali si possono celare in un corpus di testi capace di ravvivare o reinventare all’occorrenza ogni forma della tradizione: dall’apocalittico all’arcadico, dal propagandistico al meditativo, dall’ironico al sentimentale, passando dalle antiche saghe islandesi a Dante, a Shakespeare, per approdare infine a Goethe. Con un saggio di Iosif Brodskij.
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1943. Nella Francia occupata dai tedeschi, un giovane ufficiale, Robert B., rientra a Parigi dopo più di tre anni di prigionia. Nell’attesa di un treno che, dalla Gare de Lyon, lo riporti finalmente a casa, ha un pugno di ore da spendere nella capitale e un impegno da assolvere: trovare Marie-Ange, la ragazza che il suo compagno dell’Oflag in cui erano rinchiusi, Bruno Berthier, ha conosciuto durante una breve licenza dal fronte e di cui è rimasto innamorato. Ha inizio così una ricerca attraverso una città che non ha più nulla della Parigi da Robert conosciuta prima della guerra: strade vuote di automobili, mercato nero, code, vetrine spoglie, un’atmosfera di paura, rabbia, disordine morale, troppo volti sconosciuti, nessun volto che riesca a risplendere nel ricordo. Via via che le ore scorrono, la ricerca assume i contorni di una vera e propria inchiesta, perché anche la polizia è intanto sulle tracce di Marie-Ange, resasi irreperibile: il corpo del suo ex marito è stato infatti ritrovato alla frontiera franco-belga, in un camion contenente merci di contrabbando. Chi lo ha ucciso? E perché? C’erano ancora rapporti fra loro? Che ne è stato del figlio che avevano messo al mondo? In “Sei ore da perdere”, Robert Brasillach costruisce un perfetto noir alla Simenon dove una struttura a incastro illumina di volta in volta gli indizi in vista della loro finale collocazione, ma traccia altresì un crudele quanto illuminante ritratto di una capitale in tempo di guerra dove il senso del «tragico sociale» fa strame di ogni illusione sul passato e sull’innocenza dei suoi protagonisti. Edizione numerata da 1 a 1000. Introduzione di Roberto Alfatti Appetiti. Postfazione di Fausta Garavini.
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Nell’operazione di profondo rinnovamento della cultura e della letteratura italiana di primo Novecento, di cui la rivista “La Voce” fondata e a fasi alterne diretta da Giuseppe Prezzolini fu la principale promotrice, posto di primo piano occupa Piero Jahier (Genova, 1884 – Firenze, 1966). In Ragazzo Jahier rievoca i momenti più significativi della propria giovinezza, il suicidio del padre, la povertà della famiglia, le origini valdesi, tramite uno stile che, quando non giustappone, mescola costantemente prosa e poesia. Insieme con Il mio Carso di Scipio Slataper e Il peccato di Giovanni Boine, Ragazzo rappresenta l’esito più felice della stagione letteraria dell’autobiografia lirica. Il volume, che riproduce il testo dell’edizione definitiva, dà conto della totalità del processo variantistico, dalle prime stesure manoscritte alle edizioni a stampa. In chiusura è offerto al lettore il repertorio bibliografico degli scritti d’autore, frutto dello spoglio di riviste e quotidiani dell’epoca, che ha permesso il recupero degli scritti dispersi, molti dei quali successivi al secondo dopoguerra.
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In Europa, verso la fine della Seconda guerra mondiale, Londra è ancora sotto i bombardamenti. I razzi V-2, temibile e fantomatica arma nazista, sono legati in modo misterioso all’esuberante vita sessuale di un giovane ufficiale americano, Tyrone Slothrop: ogni volta che il militare va a letto con una donna, un missile precipita nella zona circostante. Detective, rabdomante, reincarnazione postmoderna di un cavaliere all’inseguimento del Graal, Slothrop anticipa e insegue le esplosioni muovendosi nello spazio e nel tempo, attorniato da un esercito di personaggi bizzarri, dentro a un febbrile proliferare di storie che disegnano un’opera in continuo mutamento. Un romanzo che è un universo vivente, e si nutre di sacro e profano, di tragedia e irrisione, di esoterismo, mito, scienza e cultura pop.
Pubblicato nel 1973, L’arcobaleno della gravità è il romanzo cruciale della letteratura postmoderna, e uno dei libri fondamentali della letteratura novecentesca.
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Il carteggio fra Furio Jesi e Károly Kerényi – che presentiamo per la prima volta nella sua integrità – si svolge nell’arco di un quadriennio: dal 1964, quando Jesi, appena ventiduenne, prende contatto col già celebre mitologo ungherese, da lui considerato un’autentica guida spirituale nei suoi primi anni di studio, fino al 1968, quando avviene la repentina e irreversibile rottura a causa di un saggio di Jesi in cui Kerényi ravvede un attacco quasi oltraggioso nei propri confronti. Una galleria di figure – Pavese, Mann, Buber, Jung, Frobenius e Stefan George – segna le tappe dell’epistolario, mentre un sapere nuovo illumina con eguale chiarezza le immagini degli dèi greci e la poesia di Rilke, il romanzo tardoantico o quello manniano, la “magia” di Apuleio ovvero di Faust. Ma certo non sfuggono i problemi di tenore più strettamente politico: sia lo sfruttamento intenzionale, o “tecnicizzazione” del mito da parte del nazismo e la posizione degli intellettuali tedeschi; sia, durante la Guerra dei sei giorni, la questione del sionismo, inteso a sua volta come problema mitologico, del rapporto con la tradizione. Se il confronto col passato e la trasmissione del sapere esprimono sempre, per Kerényi e Jesi, un ethos, anche il dialogo tra maestro e allievo esige necessariamente una scelta, teorica e insieme pratica, capace di decidere – nelle ultime lettere – la fine sorprendente della loro amicizia.
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Negli ultimi quindici anni si è sviluppato in Italia un nuovo discorso antirazzista, che ha messo a tema il concetto di razza nella sua declinazione socio-culturale, permettendo di leggere le metamorfosi storiche del razzismo. Attraverso i saggi del volume si può leggere l’intera traiettoria dell’affermazione di questo discorso antirazzista, di cui l’autrice è una delle principali protagoniste. Declinato nella specificità del contesto italiano, questo discorso permette di comprendere il carattere strutturale del razzismo che segna la storia del paese, dagli albori fino ai giorni nostri. Emerge così una doppia traccia: un razzismo interno, che affonda le radici nel processo di nation building e nella definizione dell’identità nazionale, e un razzismo esterno o postcoloniale, che segue lo sviluppo dei processi migratori.
Organizzato in tre blocchi tematici, il libro presenta riflessioni sulla «nascita» del concetto di razza e sulla sua relazione con la questione di genere, discute le particolarità del razzismo in Italia, mostra come la razza organizzi il mercato del lavoro contemporaneo.
Per chi si pone il problema dell’attualità e delle origini del razzismo che quotidianamente viviamo, questo è il libro giusto.
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«Ho molti dubbi, troppi. E una domanda che chiunque scriva memorie, qualunque scrittore grande o piccolo, conosce: servirà a qualcuno questo mio mesto racconto?». È l’interrogativo che Varlam Salamov si pone nell’introdurci ai suoi ricordi della Kolyma, «racconto di uno spirito che non trionfa, ma che piuttosto viene calpestato». In queste pagine – nucleo centrale degli scritti autobiografici qui radunati – Salamov rivive e ci fa vivere l’inferno del lager: l’implacabile freddo siberiano, la fame assillante, l’umiliazione continua dei lavori forzati e delle violenze, e le efferate tecniche messe in atto dal potere sovietico per ridurre i detenuti a «relitti umani» – termine ultimo di un processo di decadimento del corpo e dello spirito perseguito con caparbia brutalità. Un resoconto secco, aspro, intransigente, giacché quel che preme a Salamov è scandagliare un’«esperienza sottoterra» che, riducendo l’uomo a istinto e spirito di conservazione, ne mette a nudo la natura profonda. Ma le sue rievocazioni ci riportano anche alla Vologda dell’infanzia, dove precoci si manifestano l’amore per la poesia e l’insaziabile sete di libri; alla Mosca degli anni Venti, dove rifulgono le stelle di Sklovskij, Majakovskij e Bulgakov – un «sottobosco luminosissimo» presto «spazzato via dalla scopa di ferro dello Stato»; e da ultimo al tempo della riabilitazione ufficiale, del ritorno a Mosca e dell’inattesa amicizia con Pasternak. Il percorso di un’intera vita, insomma, che trova il suo fil rouge nell’anelito costante, quasi viscerale alla letteratura: «Scrivo perché leggendo la mia prosa lontanissima dalla menzogna qualcuno possa fare nella sua vita qualcosa di buono anche in minima parte. Perché qualcosa bisogna fare».
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Tredici anni dopo Totalità e infinito Lévinas scrive Altrimenti che essere, ove ritorna sulle tematiche di fondo lì affrontate, sviluppando con una diversa profondità questioni in quella sede solo abbozzate. Interpretare la soggettività come pazienza, passività, uno-per-l’altro, esposizione, espiazione, ostaggio, come responsabilità per altri e poi come sostituzione: è questo l’oggetto di Altrimenti che essere. Lévinas mette in discussione il riferimento della soggettività all’Essenza e il «trovare all’uomo una parentela diversa da quella che lo lega all’essere ». Intrecciando il tema della soggettività umana con quello della trascendenza, l’autore critica il primato dell’essere, cercando così un senso di trascendenza che sappia andare al di là dell’ontologia. Tale critica viene condotta alle sue estreme possibilità, sino al punto in cui la filosofia cessa di pensare (e di ridursi) al problema dell’essere e del suo detto, per aprirsi alla dinamica dell’altrimenti e dell’al di là, rendendo questo saggio, per il rigore argomentativo, opera fondamentale della riflessione levinassiana.
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