Piero Camporesi – Il pane selvaggio

Il pane selvaggio

Nell’Europa fra Quattro e Settecento, larga parte della società era non solo schiacciata dal peso degli status piramidali, immodificabili per legge divina e volontà regale, ma anche oltraggiata dalla fame e dalla miseria, tiranneggiata dall’uso quotidiano di pani ignobili, spesso mischiati volontariamente con erbe e granaglie tossiche e stupefacenti. Mentre i Galilei, i Cartesio e i Bacone fabbricavano una macchina del mondo razionale e ordinata, la sottoalimentazione cronica e l’ubriachezza domestica generata da queste droghe campestri e familiari lanciavano il corpo sociale in un viaggio onirico di massa, in trance ed esplosioni dionisiache che coinvolgevano interi villaggi, nei meandri di un immaginario collettivo demonico e notturno che compensava un’esistenza invivibile, alle soglie dell’animalità. Nel Pane selvaggio Piero Camporesi, ricorrendo a un’ampia campitura di fonti letterarie d’età moderna, racconta un’umanità narcotizzata, preda di una colossale vertigine oppioide, che viveva in un mondo di squallida apatia intellettuale e morale e di disinteresse per le cause più alte, sprofondata in un universo fantastico. Un’umanità, tuttavia, che ancora conosceva la percezione extrasensoriale della realtà, forme di coscienza e di scienza diverse da quelle, a una sola dimensione, della razionalità, e che dunque ancora poteva attingere ai serbatoi onirici che l’interdizione delle erbe allucinogene ha poi distrutto. Piero Camporesi – che per statura può essere avvicinato a Jacques Le Goff, e che come questi si è adoperato per restituire il ritratto storico e sociale dell’Europa preindustriale attraverso i sensi degli uomini che vi avevano materialmente vissuto – è stato un maestro, con la sua ricerca, per generazioni di studiosi, e con la sua prosa ricca eppure nitida impersona una delle massime vette raggiunte dalla scrittura italiana secondo-novecentesca.