Sándor Márai – L’eredità di Eszter

«Nella vita esiste una specie di regola invisibile per cui ciò che si è iniziato un giorno prima o poi lo si deve portare a termine». Per vent’anni Eszter ha vissuto un’esistenza piana e senza scosse, nella quasi inconsapevole attesa del ritorno di Lajos, il solo uomo che abbia mai amato e grazie al quale ha conosciuto, per un breve periodo, «quel senso di allarme continuo» che è stato «l’unico vero significato della sua vita». E un giorno Lajos torna: Lajos il bugiardo, l’imbonitore, il falsificatore di cambiali, il mascalzone, Lajos che esercita sugli altri un fascino il cui effetto è paragonabile solo a quello di un sortilegio o di un terribile veleno, Lajos che l’ha ingannata sempre, che mente «come urla il vento, con una specie di forza primordiale, con allegria indomabile» – che aveva detto di amare una sola donna, lei, e poi aveva sposato sua sorella. Ed Eszter sa che Lajos torna per prendersi l’unica cosa di valore che ancora non si è portato via, e che lei non farà niente per impedirglielo. Sa anche che la storia non è finita, perché «gli amori infelici non finiscono mai». Che Márai sia un maestro della tensione narrativa spinta quasi all’insostenibile è cosa ben nota ai lettori delle Braci. Solo Márai può gareggiare con se stesso – e qui, ancora una volta, ci racconta una storia che stringe la nostra mente in una morsa, fino allo scoccare dell’ultima parola.

Sándor Márai – Confessioni di un borghese

A trentaquattro anni, quando tanti muovono i primi passi nella vita letteraria, Márai pubblicò un libro di memorie di allarmante, definitiva maturità: Confessioni di un borghese. E lo fece in un momento (la metà degli anni Trenta) in cui, anche se pochi se ne rendevano conto, tutto ciò che era accaduto in precedenza assumeva una tinta di vecchia Europa, sebbene si presentasse a volte come la punta della modernità più sfrenata, con tutti i suoi eccessi – sessuali, intellettuali, politici. È il caso della Berlino dove Márai era vissuto pochi anni prima, e che gli era apparsa come un «unico, continuo ballo in maschera».
In questo che è anche uno scintillante romanzo di formazione seguiamo il narratore dall’infanzia nella cittadina di Kassa, sullo sfondo del tramonto di quella civiltà danubiana che la storia di lì a poco cancellerà, agli anni in cui, spinto da una vorace curiosità e irrequietezza, abbandona il suo paese per una destinazione a lui stesso ignota. Cominciano così le peregrinazioni nell’Europa fra le due guerre: da Lipsia a Weimar, da Francoforte alla Berlino degli anni Venti (in cui «tutti si davano alla pazza gioia, come avvertendo l’approssimarsi di una catastrofe»); quindi a Parigi, dove con la giovane moglie Lola condivide un’esistenza bohémienne, fra alberghi equivoci e miseri bistrot, templi della mondanità internazionale e caffè dell’emigrazione politica di Montparnasse. E ancora sarà a Firenze, a Londra, in Medio Oriente – sino al momento in cui, mettendo fine agli anni di apprendistato, deciderà di tornare in quella patria «ufficiale, poliziesca, imbandierata e fanatizzata» nella quale, nonostante tutto, per diventare uno scrittore bisognerà cercare «la vera patria, che è forse la lingua, o forse l’infanzia».

Sándor Márai – L’isola

Se il professor Victor Henrik Askenasi, proveniente da Parigi e diretto in Grecia, ha deciso di fermarsi a Dubrovnik (che negli anni Trenta si chiama ancora Ragusa), è forse perché – non diversamente dal Giacomo Casanova della Recita di Bolzano, né da tanti altri personaggi di Márai – è lì che ha un appuntamento con il destino. Perché lì, forse, troverà la risposta alla domanda che da sempre lo tormenta – quella che lo ha spinto, alcuni mesi prima, a lasciare sua moglie, i suoi studi e la sua cattedra di greco antico, e ad andare a vivere con una equivoca ballerina russa. Situazione banale, in apparenza, sebbene altamente «sconveniente», come amici e colleghi l’hanno giudicata: un maturo signore si innamora di una donna giovane e attraente. E invece no: alla turbinosa Eliz, come a tutte le donne che ha incontrato nella sua vita, Askenasi non ha fatto altro che chiedere quella risposta. Ma nemmeno lei, pur nella sua solare sensualità, nella sua generosa impudicizia, ha saputo dargliela: Eliz non era la meta, poteva soltanto mostrargli la strada. Adesso, in un pomeriggio di maggio eccezionalmente caldo, allorché decide di andare a bussare alla porta della sconosciuta che gli ha rivolto uno sguardo provocante chiedendo la chiave della sua stanza a voce appena troppo alta, Askenasi sente che la risposta è vicina, che è infine arrivato il momento di oltrepassare quel limite al di là del quale forse c’è l’oscurità del crimine e della follia – o forse la verità.

Sándor Márai – Truciolo

«Márai sorride!» potremmo annunciare oggi (come la MGM, quando distribuì Ninotchka, annunciava al mondo che la Garbo rideva). Che Sándor Márai, la cui voce ci aveva soggiogati in romanzi intensi e drammatici come Le braci o Divorzio a Buda, si riveli in questo libro anche umorista sottile e arguto moralista, sarà per tutti una piacevole sorpresa. D’altronde, ci confessa lo stesso Márai nella sua premessa in forma di burlesca autodifesa, «non si può pretendere da uno scrittore che se ne vada in giro perennemente in abito togato, che assuma sempre pose tragiche»: arriva un momento in cui questi «non ha più alcuna voglia di restare fedele al genere umano», e – sfidando lo sdegno dei «profeti dal volto arcigno» che lo esortano a dedicarsi ai gravi problemi che affliggono l’umanità – decide di scrivere la storia di un cane. Il cane che il «signore» regala alla «signora» la vigilia di Natale, ancora sudicio di fango e paglia, ha un pedigree quanto mai incerto e un gran brutto carattere: non è quel che si dice una bestiola mansueta, e dimostra sin dalla più tenera età una radicale insofferenza per qualsiasi disciplina. E sarà proprio a causa del suo caratteraccio se i rapporti fra lui e il signore, inizialmente improntati a una virile, calda complicità, giungeranno a un epilogo inatteso – e tutt’altro che edificante. Sfuggendo a ogni forma di sentimentalismo, e perfettamente conscio dell’ipocrisia che c’è molto spesso nel cosiddetto «amore per gli animali», Márai ci regala un piccolo capolavoro, pieno di vivacità e ironia, e un personaggio, il cane Truciolo, vero e forte, uno di quelli che non si dimenticano facilmente.

Sándor Márai – I ribelli

Maestro delle passioni, Márai si dedica in questo romanzo non già ai triangoli amorosi ma a un altro legame che può raggiungere una tensione rovente: quello che tiene insieme un gruppo di adolescenti in rivolta contro tutto e pronti a tutto. E riesce a far penetrare il lettore al centro di un groviglio di errori e furori, complicità e tradimenti, insofferenze e viltà – di attrazioni inconfessabili e di ambigue ripulse. Qui la materia è offerta dalle vicissitudini e dalle avventure di un gruppo di ragazzi, anzi una banda come loro stessi si definiscono, nella tarda primavera del 1918, in una cittadina dell’Alta Ungheria lontana dal fronte, dove la vita, placida e sonnacchiosa in apparenza, è profondamente inquinata dalle venefiche esalazioni della guerra. Abbandonati a se stessi mentre i padri combattono chissà dove, in balìa soltanto dei demoni della loro «rivolta contro l’utile e il pratico», della loro fantasia e della loro tracotanza – e anche di un erotismo tanto più acceso quanto più implicito –, dichiarano guerra al mondo degli adulti inventandosi giochi molto, troppo pericolosi. Un oscuro commediante, che diventa il loro mentore occulto coinvolgendoli nelle sue trame perverse, li trascinerà verso un epilogo tragico e inevitabile.
Apparso a Budapest nel 1930, I ribelli non fu più ripubblicato finché, nel 1988, Márai ne fece una sorta di preambolo all’ampio ciclo L’opera dei Garren, e lo rimaneggiò apportandovi parecchie modifiche. Su questa stesura si è fondata Marinella D’Alessandro, offrendo però al lettore in appendice i passi espunti.

Sándor Márai – L’ultimo dono. Diari 1984-1989

Fra il 1986 e il 1987 Sándor Márai, che da più di trent’anni ormai vive negli Stati Uniti, perde i due fratelli e la sorella, e anche il figlio adottivo, appena quarantaseienne. Ma soprattutto perde Lola, la donna che è stata la sua compagna per sessantadue anni: Márai, che ha coltivato il sogno impossibile di morire insieme a lei, è costretto a vederla spegnersi lentamente e, dopo averne disperso le ceneri nell’Oceano, a proseguire un’esistenza che gli appare ormai priva di senso. Il pensiero stesso della «letteratura» gli provoca ormai solo nausea e disgusto. Eppure – e fin quasi alla vigilia della morte – il vecchio «scrittore ungherese» (ché questo egli sarà sempre, afferma, ovunque egli vada) continua, nel monologo ininterrotto che è il suo diario, a registrare annotazioni di ogni genere: aforismi perfetti (la cui acida esattezza ricorda a volte Cioran); lucide riflessioni sulla letteratura (soprattutto quella ungherese, a cui non smette di interessarsi, ma anche Conrad, James, Marco Aurelio, il duca di Sully, Caterina da Siena), sul mondo contemporaneo, sul tema dell’esilio («L’esule che non fa ritorno a casa diventa un personaggio grottesco, se ne sta accoccolato su in alto, come l’anacoreta in cima a una colonna, e aspetta che arrivino i corvi a portargli da mangiare») – e naturalmente sulla prossimità della morte: «La morte è vicinissima, ne sento l’odore. Ma ho ancora qualcosa da spartire con la vita». Sono proprio le estreme, sconvolgenti pagine dell’autore delle Braci. Sándor Márai scrive l’ultima frase il 15 gennaio del 1989. Esattamente un anno prima si era comprato una rivoltella ed era andato più volte in un poligono di tiro per imparare a usarla. Il 21 febbraio, tredici mesi e mezzo dopo la morte di Lola, si uccide.